Il tempo umano

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Dividere il tempo in otium negotium come facevano gli antichi, primi fra tutti i Romani, è già un’eccentricità che dovrebbe arrestarci prima di iniziare a scrivere. Non si può proseguire nell’analisi di due concetti che sono stati distinti se prima non si dimostra il loro legame originario. Se i Romani dimidiarono il tempo dividendolo in due concetti differenti, ciò significa che esso doveva pesare su di loro in modo irresistibile. Le contrade lunghe e rutilanti che i poeti percorrevano dalla Magna Grecia alla Capitale dovevano essere un chiaro segnale di inquietudine, che spaventò gli Imperatori al punto tale da costringere alcuni di loro all’esilio. Camminare era già un atto rivoluzionario, e il fine che si propongono oggi tutti i sistemi detentivi non è quello di proteggere la comunità da potenziali criminali, ma sfibrare la tenuta fisica di chi vi è rinchiuso, minandone il fisico e sbarrandogli la memoria del tempo, unico flusso di conoscenza possibile.

L’atto di camminare fu sottratto alla creazione poetica da alcuni rigidi commentari militari che ne modulavano le tempistiche, dettavano l’andatura del passo degli arruolati e disponevano in modo meticoloso le truppe all’interno di un territorio ben definito. A quell’epoca, specialmente durante le battaglie tra i due Imperi – d’Occidente e d’Oriente – simili trattatelli andavano molto in voga. Gli Imperatori, affiancati da una cerchia che non era più costituita dai veterani romani nati e cresciuti fra le rovine antiche, erano desiderosi di sperimentare l’intelligenza dei giovani, e l’occasione migliore era lasciargli escogitare dei metodi innovativi per iniziare ad analizzare una guerra fratricida che prometteva di non essere troppo distante nel tempo.

Furono create nuove cattedre. Professori focosi dibattevano su temi religiosi. Anche la più cruda delle arti passò dallo scettro alla penna; dal ruvido al levigato. I reggenti capirono, molto prima che ci arrivasse il brillante Lévi-Strauss, che la scrittura non era uno strumento disegnato per la libertà, ma per il controllo. Scrivere significa ricordare ciò che si è vissuto in una sola maniera, in un solo modo. Trascriverlo significa incatenarlo. I versi liberi di Ovidio, le odi di Orazio e gli epigrammi di Marziale divennero troppo licenziosi, sia nella forma che nello stile: qualcosa doveva venire ad arrestarli. Inventarono la teoria della guerra. Prima esisteva solamente la descrizione delle battaglie epiche – l’Iliade, l’Odissea e l’Eneide stanno a testimoniarlo. In poco tempo l’afflato poetico cedette il passo alla richiesta ufficiale; la Musa si fece Lupa, e la metafora divenne semplice enumerazione. Nacquero gli studiosi della guerra. Ancora oggi, molti studiosi spendono le loro ore di ricerca a vagliare queste antiche miniature storiche. Esiste qualcosa di più convenzionale del tempo, questo tema che ha ossessionato i poeti di tutto il mondo? Troppo spesso si confonde l’oggetto delle proprie ricerche con il loro fine intrinseco. Si immagina di poter arrivare a qualcosa di nuovo, che possa riscuotere un qualche modesto successo, mentre non si fa che proseguire un ricordo che altri hanno lasciato seppellito sotto un voluminoso strato di polvere solo per impedire agli altri di appropriarsene. Ciò che crediamo di tutti, la Storia, forse all’inizio non era che la prerogativa di un originale. Il suo piano era troppo geniale per essere lasciato alla mercé di ognuno. Qualcuno doveva contraffarlo. Arrivarono i poeti: la cronologia dei fatti è molto semplice. Intuirono lo spettro del successo e tastarono la loro capacità di arrivarci in modo semplice e ragionevole; si appropriarono dell’idea originale e la trasfigurarono, disperdendola in mille modi diversi. Nel Novecento, la scoperta di questo tranello storico mise in seria agitazione due poeti inglesi. Thomas Eliot, nella parte conclusiva di The Waste Land, si rende conto dell’inganno in cui è caduto lui stesso: “These fragments I have shored against my ruins” – con questi frammenti ho puntellato le mie rovine. Pochi anni dopo, un altro poeta americano, Wallace Stevens, dirà: “la realtà è un cliché da cui fuggiamo con la metafora”. Il vero traguardo della poesia novecentesca è in questo riconoscimento – nel suo smascheramento millenario.

In principio era il verbo. Alla fine ci fu solo il silenzio.

La recente invasione, che dura tuttora, ha dimostrato molto chiaramente che l’uomo è capace di pensare un inizio, anzi direi che ne è quasi un esperto, mentre è assolutamente incapace di immaginarsi una fine. Siccome non può immaginarla, tenta di muoverla nel tempo – cerca di anticipare la fine a delle epoche precedenti, argomentando che tutto il disastro partì da quel momento, noi non ne siamo colpevoli. Le guerre di oggi, ha scritto una volta Nietzsche, sono la conseguenza dello studio della storia. Oltre a una scarsa facoltà di immaginare al di là dei nostri tempi, siamo anche abbastanza ingenui. Qualcosa può iniziare prima di noi, diciamo. Ma, sempre secondo la nostra logica, è impossibile che finisca dopo la nostra scomparsa. L’uomo avvertito dalla catastrofe non si impegna a sventarla, ma briga per avvicinarne il momento fatale, per contrarre la sofferenza che dura nel sapersi inerme. Non eravamo preparati a tutto questo perché non lo avevamo previsto. Il tempo, la cui insostenibile pesantezza avevamo cercato di smembrare, da bravi mortali, nel corso di lunghi secoli, ci è franato addosso in tutta la sua unicità. L’invasione attuale ci dice che esiste un solo tempo, e questo tempo non è né quello escatologico teorizzato da alcuni teologi, né quello metafisico postulato da alcuni antichi, ma è, molto più semplicemente, il tempo umano, un tempo che è mortale non perché vi sia una ragione ultima a determinarne la fine, ma per il fatto che l’uomo, fin dall’alba dei tempi, si è abituato a veder sorgere il giorno e, qualche ora dopo, a vederlo tramontare; ha assaporato la caducità di ogni gesto, anche il più glorioso, e si può tentare di avanzare l’ipotesi che tutta la decorazione teorica di cui il tempo è stato fatto oggetto non sia altro che la prova definitiva della sua fugacità. Se non si può fermare il tempo in nessun modo, allora teorizzarne uno metafisico sarà sufficiente. Il tempo, ha detto Sebald colto da un guizzo di genio, è il mormorio dell’anima.