L’infinito viaggio dell’adorabile Bruce

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Tutti i libri di Bruce Chatwin danno un senso irresistibile di vertigine. L’inizio della sua carriera da viaggiatore, o da nomade, come preferiva farsi chiamare, è già un timido segnale di come sarebbero andate le cose nella sua breve esistenza. Promettente impiegato in un’azienda d’aste a Londra, la Sotheby’s, i giovani colleghi lo invidiavano per la brillante carriera che i superiori gli prospettavano. Un giorno del 1965, come racconta nel sensazionale Le Vie dei Canti (Songlines), si sveglia cieco dall’occhio destro. L’oculista scongiura gravi danni organici, e gli sconsiglia di continuare a osservare quadri d’arte da vicino. «Senta a me, provi con paesaggi più estesi: l’Africa». Chatwin, che tra i mille pregi aveva, in sommo grado, quello dell’incisività e del cambiamento repentino, parte subito per il Sudan. Circostanze simili stanno alla base di altri suoi libri famosi: In Patagonia, forse il più celebre, nacque da un incontro con un architetto parigino che nella sua casa aveva una mappa della Patagonia, il luogo dei suoi desideri di viaggio. Chatwin la osserva e dice: «Ho sempre desiderato andarci». L’altro, che aveva novantatré anni, dice: «Ci vada per me». Non se lo fa ripetere due volte, e il giorno dopo parte per l’America del Sud, nelle distese sterminate dell’Argentina e del Cile. Perché è questa l’equazione minima e geniale che guida tutti gli atti dello scrittore inglese: partire, ma senza organizzare nulla. Non un viaggio turistico con gelide telefonate e prenotazioni molto anticipate, ma semplicemente un viaggio improvvisato che baserà la propria meraviglia non sull’attesa, ma sulla brezza del momento. Per questo Chatwin, certamente il viaggiatore più celebre del ‘900, non può essere paragonato né a un Colombo, né a un Magellano e né a un Lèvi-Strauss. I primi due credevano di compiere la quarta crociata cristiana, e sapevano le ragioni del loro viaggio senza sospettare l’esistenza dei luoghi che avrebbero incontrato (per Chatwin era il contrario: sapeva dove andava, ma non cosa avrebbe fatto!), mentre le esplorazioni del terzo, che pure l’antropologo belga aborriva, erano preparate da anni di studio e da un apparato scientifico mostruoso. Così, si può quasi dire che Chatwin abbia destituito il viaggio di ogni significato escatologico o scientifico per dargliene uno puramente umano. La domanda che orchestra la struttura frammentaria e narrativa de Le vie dei Canti la si ritrova in una lettera del ’69 a Tom Maschler: «La domanda cui cercherò di rispondere è la seguente: “Perché gli uomini invece di stare fermi se ne vanno da un posto all’altro?”». Infatti, la seconda parte del libro mira a riordinare la mole impressionante di taccuini che aveva accumulato nei suoi viaggi, e il cui tema era e rimase sempre uno solo: l’anatomia dell’irrequietezza, come recita un altro suo titolo. 

Se è vero, come dice Cioran, che un buon libro è tale solo se scuote il lettore, allora alla fine de Le Vie dei Canti bisognerebbe mollare tutto e partire. 

 

Le pagine di Chatwin hanno questo di miracoloso: sembrano un bighellonare gaudente, da classico scrittore inglese di viaggio, col suo snobismo, e invece ricostruiscono meravigliosamente, a piccoli tratti, tutta la storia della nostra vita e del ‘900: l’incontro con Konrad Lorenz, padre dell’etologia e vincitore del Nobel per la letteratura nel ’73, la lotta ancora attuale, nel caso dei Canti in Australia, tra europei e stranieri, aborigeni e australiani, o le mirabili discussioni con i due collaboratori dell’eminente professore Robert Dart, o la teoria del “bagno di sangue” avanzata da Arthur Koestler, per cui l’intero genere umano sarebbe pazzo a causa di una “insufficiente coordinazione tra due zone del cervello”. Tutte cose che a Chatwin facevano storcere il naso. In una pagina commovente descrive l’incontro con una grinzosa e anzianissima nomade dell’Africa centrale, che nonostante una vita di sofferenze non riesce a togliersi di dosso un sorriso smagliante. Chatwin ha un’intuizione, e pensa: “Tutte quelle teorie sono assurde, se questo è possibile…”. 

Oppure ancora, uno dei momenti più tragici della sua vita, quando ordina cinquanta moleskine e la proprietaria del negozio, con una voce malinconica, gli annuncia che l’unico rifornitore rimasto era morto, e i figli avevano venduto l’azienda. «Le vrai moleskine n’est plus». 

La tesi di fondo di Chatwin è radicale: l’unica vera malattia è la sedentarietà. «A volte ho pensato possibile formulare una teoria dello stanziamento – e quindi della civiltà – come la “stagione di una penuria capitalizzata”». Idea geniale quante altre mai. Un periodo di stasi cronico, che crea ad hoc una penuria fittizia per perpetuare lo stanziamento in un luogo definito, mentre fino agli anni precedenti l’avvento del capitalismo la penuria era stata sempre uno stimolo ad emigrare. Anche i libri scientifici e animalistici lo dimostrano: là dove regna l’abbondanza vi sarà più ferocia. 

 

Ci si trova persino imbarazzati a voler recensire un libro come Via dei Canti, che è l’anti libro per eccellenza: Chatwin lo rincorse per anni accumulando taccuini su taccuini, pensieri su pensieri e esperienze su esperienze, e la stessa struttura alterna la storia del suo viaggio in Australia ad alcuni incontri sparsi in tutto il mondo, dall’Africa all’Asia fino all’America, volti a confermare l’universalità del viaggio. In Australia Chatwin incontrerà un personaggio che spicca sugli altri per la sua forma spiccatamente romanzesca: Arkady, un russo emigrato studioso di aborigeni e di culture australiane. Tutti gli altri personaggi sembrano un’inevitabile parodia dei due protagonisti, pedine mosse dall’astuzia di chi assiste a scontri feroci e diatribe tra modernità e tradizione e non sa se ridere o piangere, quindi nel frattempo decide di scrivere per scacciare l’assillo.