Se c’è una cosa che non ho mai saputo fare è dire le bugie, se non a me stessa, almeno agli altri. Non lo permettevo neanche a mia madre. Quando ero piccola, bambina intendo, in quel limbo di incoscienza tra i tre ed i dieci anni, sgamavo le piccole omissioni o le inesattezze intenzionali di mia madre, Anna, nei discorsi con i suoi interlocutori, parenti o conoscenti, a seconda della circostanza. Ero spesso presente, quando Anna raccontava un fatto o riportava una confidenza a qualche sua amica del palazzo in cui abitavamo; in verità ce ne era una sola di amica nel palazzo, la signora Imbucci, un donnone alto, dall’aspetto un po’ androgino, che spesso saliva da noi al quarto piano, lei abitava al terzo, proprio sotto di noi.

Clara, ora non c’è più, come non c’è più mia madre, ma per noi è stata sempre la signora Imbucci, che ci ha praticamente visto crescere.

Clara, dicevo, era alta ed imponente con un taglio di capelli sempre uguale nel tempo, un taglio ed un colore rimasti immutati fino ad oltre i suoi ottant’anni. Quando di lei avevo perso le tracce, ricordavo in particolare quel taglio pari dei suoi capelli, lunghi fino all’attaccatura del collo alle sue spalle. Quindi, dicevo che, quando Anna incontrava qualche amica o un parente e raccontava qualcosa in mia presenza, io affermavo il contrario, irrompendo nella discussione con un “Non è vero!” Ricordo che dopo, quando restavamo da sole,mamma mi rimproverava, ma io non ho mai perso l’abitudine. Non ricordo perfettamente le occasioni in cui la contraddicevo, ma in sostanza era questo quello che facevo.

Non sapevo dire le bugie, anche se qualche volta ci ho provato e mi è andata male. La prima volta segnò per sempre la mia incompetenza in tal senso.

Frequentavo la terza elementare, prima che poi si sarebbe chiamata scuola primaria, con le varie riforme che hanno stravolto il funzionamento della scuola pubblica, la scuola di tutti. Io provengo dal mondo della scuola elementare, quella degli anni Sessanta e ho avuto la fortuna di avere un altro grande maestro, oltre l’insegnante unico. Alberto Manzi era il “mio” maestro televisivo, che con il suo programma mattutino, intitolato “Non è mai troppo tardi”, ha insegnato a milioni di bambini, a leggere e a scrivere con una chiarezza e simpatia tali, da rimanere impresso nella mia memoria.

Mi piaceva ascoltare la sua voce e seguire la sua mano, che assecondava il gesso sulla lavagna di ardesia, che si intravedeva al di là dello schermo bombato dei televisori, prima che diventassero ultrapiatti e tecnologici come quelli di oggi. Ricordo perfettamente quando in abito grigio, camicia e cravatta, al tempo in cui la televisione era ancora in bianco e nero, il maestro Alberto scriveva con il gesso bianco quelle lettere e quelle parole sullo sfondo scuro della lavagna.

Credo che molto di lui mi sia rimasto dentro, la passione, la dizione, la chiarezza del suo linguaggio e dei segni grafici scritti con il gesso.

Frequentavo la scuola elementare dalle suore, e sì, perché dalle suore? Non lo so, non lo ricordo; so solo che nel 1967 fui iscritta dai miei, dalle suore dell’istituto religioso inglobato tra le palazzine delle case popolari della Cassa per il Mezzogiorno. Un edificio giallo circondato da un po’ di verde e dai vari fabbricati del rione, posto tra i Colli Aminei ed il Real Bosco di Capodimonte.

Io fui iscritta in terza elementare con la maestra Russo… non rammento più il suo nome, una donna non molto alta e claudicante, dolce ed accogliente, che io mi ingraziavo, portandole le pizze fritte, imbottite con la ricotta ed il prosciutto, che mia madre cucinava. Ricordo che ci tenevo tanto a conservarne una per la mia maestra. Ho qui impresso nella memoria delle mie pupille scure, il piacere provato da quella donna nel ricevere quel piccolo dono rustico e gustoso con la mozzarella che filava sulla polpa bianca e morbida della ricotta ancora calda.

Accanto al dolce dei ricordi vi è anche l’amaro. Le suore dirigevano l’istituto con rigore e severità, pulizia e disciplina.

Suor Suffloriana era, però, tra tutte la più antipatica, altera ed arida di sorrisi. Non dimentico i suoi favoritismi, le sue preferenze tra noi bambini e per me mai niente. Dolcezza zero. C’era una certa Flora, una bambina come me, dai capelli lunghi e biondi, lisci e perfettamente livellati alle punte con una frangetta che le scendeva sugli occhi, mentre i miei erano scuri e un po’ ribelli. Flora era la prediletta tra quelle donne in bianco e nero, ma io non ne ho mai conosciuto il motivo. Ricordo che fu organizzata una recita e lei ebbe la parte da protagonista… io ero tra le comparse… ero bellissima nell’abito di carta crespa azzurro, che mia madre, per l’occasione mi aveva confezionato… aveva un tralcio di rose di carta, che dal colletto e lungo il busto si allungava fino all’orlo della gonna.

Quando mi lamentavo con mamma della disparità di trattamento che operavano “e cape e pezza”, così le definiva mio padre, lei mi rincuorava dicendo:

-Evidentemente Flora sarà la figlia di qualche persona importante, qualcuno benestante… che fa offerte all’istituto.
A scuola dalle suore furono iscritti anche i miei fratelli più piccoli, Eugenia ed Alessandro, gli ultimi due della nostra famiglia numerosa. Al momento della ricreazione io non potevo intrattenermi con le mie compagne di classe nel giardino, che si apriva davanti all’ingresso dell’istituto, perché le suore mi facevano andare nell’aula dell’asilo dai miei fratellini per imboccarli. Sì, proprio così, mi utilizzavano per dar loro la pastina con il formaggino, oppure qualcos’altro che ora non ricordo.

Mi sedevo di fronte a loro, piccoli e bellini, nei loro grembiulini a quadrettini, ma vivevo quel momento come un’ingiustizia, divisa tra il senso di colpa e l’affetto che provavo per loro. Venivo privata di quel tempo prezioso e ristoratore, necessario per affrontare poi le fatiche dello studio.

La ricreazione era un momento magico da condividere con le compagne di classe, merendine, parole, pensieri ed esperienze di gioco.

Un giorno non ne potei più. Dopo essere giunta davanti al portone dell’istituto decisi di non entrare, ma non ebbi neanche l’idea di andare a farmi un giro da qualche parte. Desiderai solo ritornare a casa da mia madre. Fu in sostanza un filone a metà… in questo fui precoce… all’avanguardia.

Salii in fretta le scale, abitavamo all’ultimo piano del palazzo in Via Lieti; le salivo spesso a due scalini alla volta, per vedere quanto ero veloce a salire ; la schiena curva e le gambe divaricate, la cartella rettangolare a tracolla sulle spalle ed il grembiule bianco sul quale spiccava il blu intenso del fiocco, che chiudeva il colletto bianco di quella divisa scolastica intramontabile. Le mie gambine coperte a metà dai calzettoni bianchi di cotone traforato, finivano nelle scarpette eternamente bianche, grazie a quel bianchetto morbido e pastoso, che si usava tanto in quegli anni, per restituire il biancore alla tomaia, quando un paio di scarpe doveva durare fino a quando il piede non sarebbe aumentato di numero.

-Diletta, come mai sei qui e non a scuola? Il viso di mia madre sul varco della porta mi accolse meravigliatissimo.
-Ora ti spiego, mammina!

Entrai in casa imbronciata e mi diressi in cucina, nella nostra grande cucina blu; le mattonelle quadrate blu arrivavano fin sotto il soffitto bianco. Le aveva messe mio padre, che con sei figli da crescere non si risparmiava mai, per cui oltre ad essere insegnante, all’occorrenza e per risparmiare, si inventava anche piastrellista. Rivedo il vinavil bianco e colloso che scendeva giù dall’orlo del barattolo, per atterrare sul retro di ogni mattonella… ricordo il diamante, quell’attrezzo strano per tagliare le piastrelle e la fatica per incollarle…le imprecazioni di papà quando il gioco si faceva duro…

Posai la cartella sulla sedia accanto al tavolo della cucina, quanto l’amavo, ci tenevo tanto a quella cartella arancione con i risvolti blu e le chiusure color oro.

– Mamma, le suore hanno fatto sciopero. Ho trovato il cancello chiuso. Non avevo idea di cosa potesse essere uno sciopero, ma in quel momento mi sembrava la parola più adatta per rendere l’idea.
-Chiuse per sciopero? Le suore? Anna non mi credette, ma mi fece parlare… era brava a far parlare i figli. Non mi punì, mi fece parlare. Indagò tra le mie frasi a metà, fino a quando non mi decido a dire la verità, la mia verità.
-Mamma, senti, non mi fanno mai fare la ricreazione!
-E perché? Ti comporti male?
-No.
-E allora, perché?
Tentenno, mi sento in colpa verso i miei fratellini.
-Perché, Diletta! Incalza Anna, poggiando le sue mani sulle mie piccole spalle.
-Perché mi fanno andare in asilo, da Eugenia ed Alessandro per aiutarli a mangiare.

Sento il mio sguardo guardare il pavimento… mi sento spompata, sfinita, ma liberata.

Anna si avvicina ancora di più a me e mi abbraccia. Ha capito tutto. Restiamo unite con il suo corpo che abbraccia il mio e la sua mente sintonizzata con la mia.
Abbraccia la mia ingenuità e comprende l’ingiustizia che le suore mi hanno fatto vivere, poi telefona in istituto e dalla portineria le confermano che la scuola è regolarmente funzionante.
Avrei potuto disertare la scuola quella mattina, andarmene a spasso chissà dove e invece avevo scelto la mia casa, il mio porto sicuro.
Un filone a metà fu il mio, il primo ed unico nella mia carriera di studentessa.
Mia madre si recò a scuola e mise a posto le cose. Io potei finalmente godere di quei pochi minuti di ricreazione, così si chiamava l’intervallo, che diventerà poi, negli anni a venire, la pausa o il break.

Mia madre fu intelligente e dolcissima, non mi punì e mi credette.

Suor Suffloriana continuò ad essermi antipatica e per le suore da quel momento non ebbi più eccessiva considerazione. La quarta e la quinta elementare le feci nella scuola pubblica dei Colli Aminei, nel 33° Circolo Didattico, dove molti anni dopo sarei entrata da insegnante. Persi così la mia unica maestra simpatica e dolcissima della mia vita, la maestra Russo, quella claudicante, quella che amava le pizze fritte di mia madre.


La bugia

Di Elena Opromolla