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Società

La solidarietà ai tempi di Facebook

Di fronte a tragedie come quella del recentissimo terremoto che ha colpito e annichilito il Centro Italia, non si può che rimanere costernati.

Ma nonostante io sia un’assidua frequentatrice della rete, sono dell’avviso che il dolore sia un fatto intimo e che vada vissuto in modo silenzioso, interiore, fuori da clamori e dagli schemi stereotipati dei nuovi codici culturali e comunicativi. Perché la sensazione di vuoto e di impotenza, la riflessione sulla caducità e pochezza umana di fronte alla furia della natura, ha poco a che vedere con i migliaia di link e condivisioni pieni di buoni sentimenti, di dolore e partecipazione che il popolo della rete continua ininterrottamente a postare dal momento in cui la notizia si è diffusa.

Sembra quasi che questa forma di trasmissione di sentimenti telematici e di solidarietà virtuale, contenga in sé un meccanismo che oltre a rendere chi scrive partecipe a suo modo dell’evento, contribuisca a pacificarlo con la propria coscienza.

Scrivere su Fb, un pensiero, una frase bella e profonda, equivale ad esprimere una vicinanza emotiva all’evento luttuoso, qualunque esso sia. Postare o condividere un link che racchiude in sé i migliori sentimenti umani, diventa quasi un dovere civico, che si realizza cliccando semplicemente su un mi “piace” o “condividi”. Ho francamente l’impressione che questa pratica , connaturata all’idea stessa dei social , se da una parte rispecchia il bisogno di comunicare stati d’animo di compartecipazione e vicinanza nei confronti di quanti stanno vivendo momenti drammatici, dall’altro, serva davvero a poco.

In una società globalizzata certamente le modalità comunicative-espressive del pensiero sono cambiate completamente rispetto al passato.

Per intenderci, fermo restando l’intangibilità del diritto-dovere di cronaca, linfa vitale da cui promana la circolazione delle idee e garanzia imprescrittibile di libertà, penso che la solidarietà si nutra di ben altre cose. Non solo di parole sapientemente dosate, ma innanzitutto di fatti concreti. Anche io in passato , al tempo del primo attacco terroristico al giornale satirico francese Charlie Hebdo, ho postato con convinzione la celebre frase ”Je suis Charlie”, adeguandomi ad un pensiero comune che cavalcava l’onda del politicamente corretto e nel contempo mi faceva sentire parte di quell’universo che con le parole diceva no alla follia terroristica.

Ora invece, dopo decine di nefaste notizie, ho assunto un atteggiamento più silente, di personale ed intima riflessione sulle vicende della vita e sulle dinamiche spesso incomprensibili che la governano, che mi impedisce di “condividere” il pensiero comune espresso in rete.

Naturalmente apprezzo moltissimo coloro che offrono contributi pragmatici, non limitandosi alle parole e che usano i social, in particolare Fb come mezzo di comunicazione delle loro iniziative. Chi si adopera per una raccolta di viveri e di indumenti, chi offre un tetto o un pasto caldo a quanti ne hanno bisogno , chi dona il sangue, chi insomma non si limita alle frasi fatte, ma sostituisce con azioni vere una miriade di frasi melense e dolore virtuale, spesso solo di facciata….

raffaella imbriaco

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