Una brutta firma
Osservo la mia firma. E’ incerta, inutilmente svolazzante, senza personalità, decisamente brutta.
Guardo quei fogli e vorrei cestinarli, ristamparli e rifirmarli, ma non cambierebbe nulla.
La firma rimarrebbe sempre pessima.
Rileggo le clausole e mi soffermo sui miei dati. Sono corretti.
Scorro velocemente i primi sei punti. Li avevo già controllati e non mi sembrano variati.
Ho deciso, eppure indugio.
Strano. Non pensavo fosse così difficile separarsi.
Non è la prima volta che percorro quei passi, ma oggi è più difficile.
Sarà l’età, mi dico.
Ricontrollo l’ennesima volta e passo alle pagine destinate alla privacy. Le scorro superficialmente. Il “burocratese” non mi piace, ma è un passo indispensabile per suggellare il patto.
Osservo nuovamente la mia firma.
Sarà brutta, ma è parte di me.
Sospiro.
“E’ fatta!” mi dico.
Ciò che io chiamo “il figlio del covid” è pronto a lasciare il nido.
Scansione il tutto, preparo un messaggio elettronico, ringrazio per l’opportunità e clicco il tasto “invia”.
Mi aspettano mesi di lavoro e, probabilmente, “il figlio del covid” cambierà un po’ pelle, ma sarà sempre parte di me.
E’ il mio romanzo e verrà pubblicato.