Articolo scritto nell’Agosto 2019
C’è stato un periodo della mia vita in cui ho pensato di farla finita. Non lo sa nessuno, ma ero arrivata a un punto nel quale vivere era diventato troppo doloroso e mi ero convinta che l’unica via d’uscita fosse andarmene. Ho sofferto di depressione per tanto tempo, in realtà non saprei neanche se definirmi totalmente guarita o meno. Ho trascorso tanti mesi tra due personalità: di giorno la ragazza sorridente che tutti conoscevano, di notte la sedicenne che piangeva, non dormiva e annegava negli attacchi di panico. È stato proprio durante uno di quegli attacchi che mi sono detta: basta, così non ce la faccio ad andare avanti, è ora di finirla. Se mi sono fermata in tempo non è stato perché sono guarita miracolosamente, ma perché non volevo dare un ulteriore dolore ai miei genitori. Volevo porre termine alla mia vita, ma non potevo accettare di distruggere la loro per la seconda volta, tra l’altro con una nuova tragedia.
Mia sorella era morta. Non riuscivo neanche a pronunciare la parola “morta” ad alta voce perché non volevo accettare il fatto che se ne fosse andata per sempre. Era una condanna troppo definitiva. La morte è sempre terribile, ma quando arriva a 27 anni, dopo sei anni di terapie, interventi e dolori indicibili rappresenta una meta ancor più dolorosa ed inaccettabile. A questo bisogna aggiungere che, vista la nostra differenza di età di ben 11 anni, non era solo una sorella, ma anche una seconda madre. Eravamo più anime gemelle che sorelle, lei era tutto per me e io ero tutto per lei. Fu anche per quel motivo che quando mi trovai da sola il mondo mi crollò addosso, totalmente.
Avevo appena 16 anni con l’unica sorella rinchiusa in una bara a marcire: per questo ancora oggi non riesco ad andare al cimitero, al solo pensiero del suo corpo in decomposizione rabbrividisco. I miei genitori non potevano vedermi soffrire perché la perdita di un figlio è la cosa più straziante che possa succedere e poi c’erano gli sguardi compassionevoli di quelli che mi conoscevano e per i quali ero diventata una sorta di anima in pena.
Così finii per rifugiarmi nella depressione, un porto sicuro dove attraccare; è difficile da comprendere, ma per me era quasi una comfort zone nella quale trovare riparo. In quelle interminabili e strazianti ore notturne finalmente potevo essere me stessa. Non dovevo nascondermi, bastava chiudere la porta della camera e la vera me veniva fuori, finalmente libera dopo una giornata di finzioni. Trascorrevo le notti piangendo fino a esaurire la riserva di lacrime, scrivendo su carta quello che provavo e ascoltando musica triste nella quale mi rispecchiavo.
La parte più negativa di tutto ciò erano gli attacchi di panico. Avevo iniziato a soffrirne qualche mese prima, quando i dottori ci avevano detto che mia sorella sarebbe morta: l’unica cosa che non sapevamo era quando sarebbe successo. Gli attacchi arrivavano di solito quando mi mettevo a letto e venivo sommersa dai pensieri, più raramente comparivano quando ancora ero in mezzo agli altri. Mi mettevo le cuffiette, aprivo la playlist che avevo creato per quei momenti e iniziavo a scrivere, anche se la maggior parte delle volte la mia grafia risultava incomprensibile perfino a me visto come tremava la mano. Passato l’attacco di panico, mi sentivo vuota, spossata, stanca, con un lancinante mal di testa.
Così dopo l’ennesima crisi avevo deciso che non volevo più soffrire in quel modo, preferivo farla finita.
Avevo iniziato a pensare a come fare, quale modo fosse il migliore e quale il momento perfetto per mettere in atto il mio piano. Ero andata avanti con questi pensieri a lungo e per diversi giorni, ma quando il mattino dopo guardavo in faccia i miei genitori, mi dicevo che non potevo ferirli ancora. I loro occhi erano spenti, avevano perso quella luce che li caratterizzava. Mia madre aveva avuto il ruolo della donna forte, che non piangeva in pubblico e non aveva mai lasciato sola la figlia lungo il suo calvario, ma io la conoscevo bene e sapevo che in realtà dentro di sé si sentiva morta. Mio padre, invece, aveva un carattere che lo portava a esprimere con facilità le proprie emozioni e lasciava trapelare chiaramente quanto stesse soffrendo.
Ero arrivata al punto in cui non mi importava più della mia vita, ma come avrei potuto causare altro dolore a loro?
Non si sarebbero mai più ripresi. Mi avevano detto chiaro e tondo che l’unico motivo per il quale riuscivano ad alzarsi al mattino ero io, senza di me avrebbero perso anche l’ultima briciola di voglia di vivere. Ripensavo anche alla promessa che avevo fatto a mia sorella prima che lei se ne andasse: avrei pensato io ai nostri genitori. Guarda che brava sorella che ero: ci era voluto poco perché mi dimenticassi di quella promessa!
Così mi presentai in cucina davanti ai miei genitori e a mia nonna dicendo: “Io sto male, ho bisogno di aiuto, devo andare da uno psicologo altrimenti non ne esco”.
Non dimenticherò mai le loro facce sconvolte: non era tanto il fatto che avessi dichiarato il mio malessere, quanto perché avevo osato parlare di psicologo, una figura che, agli occhi di mia nonna, voleva dire “pazzia”. Non sapevo esattamente cosa aspettarmi dopo quella dichiarazione, ma non immaginavo la frase che le sentii pronunciare: “Se vai da uno psicologo ti immagini cosa diranno in paese? Che sei matta. Per carità!”. Ho voluto tanto bene a mia nonna e sono convinta che lei ne voleva altrettanto a me, ma ho anche imparato che non puoi cancellare il peso di certe parole quando sono state dette. Lei era una donna forte, che aveva superato delle situazioni estremamente difficili: la stimavo per questo, ma non sono mai riuscita a cancellare il dolore e le lacrime che ho versato per colpa di alcune sue uscite.
Ho provato a giustificarla per via dell’età, in fondo era nata e cresciuta in una società molto diversa dalla mia ed era normale che ci scontrassimo su molti argomenti, ma a tutto c’è un limite e lei quel limite lo avevo superato da tempo.
Con quella frase sullo psicologo il vaso si ruppe definitivamente e non si risanò mai più, fino alla sua morte. Volevo solo essere compresa ed aiutata, ma da quella parte trovai solo un muro impenetrabile. Mia madre invece mi prese da parte e mi disse che nel reparto di Oncologia dell’ospedale dove era morta mia sorella c’era un servizio di consulenza psicologi a gratuita per i malati e per i loro familiari. Dopo un primo appuntamento iniziò la mia rinascita. Sono passati diversi anni ormai e non ho più avuto occasione di incontrare di nuovo quello psicologo, ma spero un giorno di riuscirci e di poterlo ringraziare guardandolo negli occhi. Lui mi ha salvato la vita, letteralmente. Capii che saremmo potuti andare d’accordo quando, durante la prima seduta, mise in chiaro le cose:
“Non ti prometto che dimenticherai il dolore che provi in questo momento perché non ci riuscirai mai, neanche fra 30 anni. Può darsi che a 60 anni scoppierai a piangere senza motivo pensando a tua sorella. È un lutto troppo grande, non lo puoi superare, ma puoi imparare a conviverci”.
Avevo trovato una persona diretta e sincera come la sottoscritta e questa cosa mi conquistò subito. Da quel momento nacque un sentimento di grande fiducia nei suoi confronti e riuscii a confidargli ogni minimo dettaglio della mia esistenza. Con lui compresi che ero piena di rabbia per vari motivi. Soprattutto ce l’avevo con mio padre a partire da un episodio preciso: mia sorella era morta da un giorno e all’obitorio non eri più riuscita a trattenere le lacrime scoppiando a piangere tra le braccia della sua migliore amica. Mio padre mi aveva ammonita di non farlo più perché lui e mia madre non potevano sopportare la vista del mio dolore. Così, nei tre giorni che passarono dalla morte al funerale, non potei mai sfogarmi come desideravo, ma dovetti farlo di nascosto.
Senza quasi rendermene conto avevo sviluppato una sorta di avversione nei confronti di mio padre per via di quella richiesta e istintivamente avevo preferito anche nascondere per mesi la depressione che mi stava mangiando. Soffrivo molto e volevo essere aiutata, ne avevo bisogno, ma poi mi tornavano in mente le sue parole e nascondevo tutto. Solo quando arrivai ad un punto di non ritorno, trovai il coraggio di essere sincera. Con lo psicologo all’inizio ci vedevamo due o tre volte alla settimana, poi gradualmente diminuimmo le sedute fino a concludere la terapia dopo un anno. Non potevo dirmi guarita, ma il percorso terapeutico era concluso e da quel momento avrei dovuto camminare da sola.
Sono trascorsi sette anni, ne ho compiuti 25 qualche mese fa, e posso dire di stare bene ed essere felice.
Sono fiera della mia vita, delle esperienze vissute, della donna che sto cercando di diventare. Mi sono laureata e ho vissuto un anno all’estero realizzando un sogno che avevo da bambina: ho viaggiato, lavorato, studiato e ho tanti sogni per il futuro. Ci sono giorni nei quali mi sveglio con un nodo allo stomaco difficile da sciogliere, spesso mi basta ascoltare una canzone per scoppiare in lacrime e alcune feste come il Natale hanno perso la bellezza di un tempo. Non è semplice e a volte vorrei addormentarmi e svegliarmi il mattino dopo senza quel peso nel cuore che avverto perennemente. Quando sono con gli amici, penso che vorrei essere serena come loro e avere ancora una sorella che mi aspetta a casa e con la quale condividere i momenti felici. Mi rendo conto che con il passare degli anni vado perdendo la memoria del suo odore, del tono della voce e della sua risata: quel che è peggio è che a mano a mano che il tempo avanza tanti ricordi sbiadiscono.
Una professoressa di Lettere mi disse durante una lezione che ci sogna vive, chi non sogna sopravvive. Per tanto tempo mi sono limitata a sopravvivere, buttando all’aria gli anni dell’adolescenza chiusa nel dolore e nella depressione, ma non modificherei nulla del mio passato. Se sono diventata quella che sono è anche e soprattutto per via della sofferenza provata, delle notti passate a piangere di nascosto e delle ferite che ho impresse sulla pelle. Nessuno potrà ridarmi mia sorella, ma nessuno potrà togliermi i sogni perché, dopo aver pensato di farla finita, in me è nata una voglia di vivere mai provata prima. La vita è il regalo più bello che abbiamo ricevuto, anche quando sembra andare tutto in pezzi, e l’unica cosa che possiamo fare è goderci ogni momento. Io lo sto facendo per me e per mia sorella.