I segni della guerra.
Per circa due anni la vita è continuata senza tante emozioni di grande importanza, se non si esclude una sorta di spiacevole “spettacolo” che consisteva nel vedere, durante le notti limpide, i bagliori degli incendi delle case di Milano, incendi provocati dai frequenti bombardamenti che subiva la città, ormai in buona parte sventrata da quelle terribili incursioni notturne da parte dell’aviazione inglese. Ma anche sopra i nostri cieli, ogni tanto avveniva qualche cosa di insolito: periodicamente le nostre terre venivamo sorvolate da un aereo ricognitore, sempre di provenienza anglo-americana, soprannominato unanimemente “pippo” che innocuamente, ma inesorabilmente, spiava eventuali movimenti delle truppe nazi-fasciste allo scopo di comunicare ciò che vedeva ai diretti superiori. Naturalmente per noi bambini il vedere solcare il cielo da quel piccolo aereoplanino costituiva una sorta di divertimento quasi irreale per quei tempi (non esistevano ancora, per rimanere in zona ne Linate ne Malpensa 2000!), quando l’azzurro cielo era solo dominio di rondini, passeri, cornacchie e quant’altri volatili, stanziali o migratori che spadroneggiavano sui nostri terreni.
Come ho descritto in precedenza, il cosiddetto “spettacolo” notturno dei bagliori provenienti da Milano non faceva che preoccupare la mia famiglia al pensiero che mio padre si trovava proprio là, in prima linea, che tentava alla meno peggio con la “sua” contraerea, di difendere quello che c’era ancora di difendibile cercando di abbattere qualche aereo nemico: ma un giorno ci riuscì! Naturalmente fu ben poca cosa ma per lui costituì un punto di orgoglio personale anche perché ebbe innumerevoli plausi dalle più alte cariche dell’esercito ed anche dall’allora futuro Re d’Italia Umberto II. Fortunatamente però la batteria che lui comandava fu risparmiata dalle bombe nemiche e riuscì, almeno da quelle, a salvarsi.
Ma un giorno dell’autunno del ’44, la tranquilla vita di Frascarolo ebbe un sussulto. La gente si riversò tutta nelle strade e cominciò un andirivieni insolito ed un concitato parlottare che, a causa della mia tenera età, non mi era permesso di comprendere a fondo ciò che stava accadendo. Ad un tratto cominciò ad arrivare in paese una enorme quantità di mezzi militari tedeschi di ogni tipo e dimensioni: camionette, grossi autocarri, semicingolati ed enormi mezzi che mi rimasero impressi nella mente perché trasportavano grosse mitragliatrici.
Cosa stava succedendo?
La spiegazione è molto semplice, sia pure facendo una premessa indispensabile. Come tutti sanno vicino a Frascarolo transita la strada che, proveniente da nord, conduce a Valenza e poi ad Alessandria, ovvero verso sud attraversando con un ponte il vicino fiume Po. Naturalmente si può capire benissimo l’importanza logistica che aveva allora quella strada, ma purtroppo per i tedeschi, gli inglesi avevano bombardato il ponte semi distruggendolo ed ecco che arriviamo al significato della venuta di quella moltitudine di militari tedeschi proprio a Frascarolo. Appartenevano ad una compagnia di ingegneri che avevano il compito di costruire quotidianamente un ponte di barche (e poi smontarlo nottetempo) per ovviare all’inutilizzo del ponte fisso ormai bombardato.
Naturalmente questa moltitudine di persone doveva essere alloggiata e cosa vi era di meglio che sequestrare l’edificio delle scuole? Ma non bastava, per cui chi aveva disponibilità abitativa DOVEVA SPONTANEAMENTE “ospitare” uno o più militari. Quel “doveva” era da considerarsi un ordine perentorio, e a casa nostra vennero “ospitati” in una stanza a noi in sovrappiù, il comandante Raithemaier con il suo attendente Otto Lemann: forse a qualcuno sembrerà strano che un bambino allora seienne abbia memorizzato questi nomi tramandandoli all’attuale adulto ultraottantenne, ma la memoria, come la bellezza fisica, l’ugola d’oro per un cantante ecc. è un dono di natura, ed io ho avuto fortunatamente questo dono.
Il periodo di quella specie di invasione da parte della truppa tedesca è stato, per me bambino e con la relativa ed ovvia immaturità, pieno di stimoli ed interessi simili ad un gioco “dei soldatini”: il vedere questi uomini transitare davanti ai miei occhi con indosso la caratteristica divisa unitamente al più ancora inconfondibile elmetto, quel pensiero, trasportato ai giorni nostri, mi fa quasi rivivere in prima persona un film di guerra come tanti ne abbiamo visti, nell’arco di settant’anni, sia sul grande schermo delle sale cinematografiche che, di più ancora, sui piccoli schermi dei nostri televisori. Ogni mattina, all’alba, i grossi autocarri si dirigevano verso il grande fiume trasportando le pesanti travate di acciaio da adagiare sulle chiatte per formare l’impalcato del ponte galleggiante ed alla sera avveniva l’operazione inversa. Mentre alla domenica mattina si ripeteva immancabilmente l’adunata di tutti i componenti del “piccolo esercito” davanti alla Chiesa Vecchia per essere passati in rassegna dagli ufficiali che, implacabilmente ed inesorabilmente, comminavano severe punizioni a quei militari che avessero qualche piccolo particolare dell’uniforme fuori posto o addirittura se la suola dei pesanti scarponi non fosse esente dal più microscopico residuo di fango. Per noi bambini (ed anche per gli adulti) la sequenza di questo film di guerra realmente vissuto, ci meravigliava e ci sbigottiva davanti a tanta severità, ma si sa, era la fama dei tedeschi ed in particolar modo della “Wehrmacht”: la disciplina e la cieca esecuzione degli ordini erano il vanto dell’allora più potente esercito del mondo.
Ma non si creda che anche questi esseri umani dal cuore e la “testa” d’acciaio non si pigliassero qualche ora di svago: al sabato sera la maggior parte di loro si radunava nell’attuale sala dell’oratorio, dove era stato allestito una sorta di bar-birreria ed allora si scatenavano nel trangugiare tutto ciò che vi era di alcolico, reperito chissà dove, con i risultati che si possono immaginare. Immancabilmente l’attendente del capitano Raithemaier, da noi “ospitato, riportava a casa, letteralmente in spalla, il suo superiore ormai incapace di reggersi sulle proprie gambe, le cui vene erano piene di alcool con qualche traccia di sangue! Purtroppo all’epoca non esistevano le moderne e piccole telecamere oggi alla portata di tutti: ve lo immaginate un filmetto rappresentante tali scene ed inviato in visione al grande Führer? Forse le traversie dell’evento bellico degli anni ’40 avrebbero potuto essere molto diverse, non per quel piccolo episodio appena ricordato, ma perché sicuramente in tutte le zone europee occupate dall’esercito nazista i “capitani Raithemaier “ sbronzi fradici, al sabato sera, non si sarebbero contati e se il “nostro baffetto” ne avesse avuta la documentazione inconfutabile avrebbe compiuto l’estremo gesto avvenuto nel suo bunker di Berlino molto tempo prima con grande gaudio del mondo intero. Ma si sa, del senno di poi son pieni i fossi e limitiamoci a fare una semplice cronaca di ciò che è realmente avvenuto senza tanti “se” e “ma”.
Anche a Frascarolo (PV) abbiamo avuto i tedeschi del Führer
Un attimo di respiro dopo il primo tempo di questo “film di guerra” mi sembra più che doveroso e necessario. Si ricorderà che in precedenza, durante l’elencazione di alcuni personaggi che hanno lasciato il segno non solo nella mia memoria ma sicuramente anche in quella di molti miei coetanei e soprattutto nella memoria di persone più vecchie del sottoscritto, ho nominato “al sìu Cècu”. Ma per quale recondito motivo riprendo a rinominare tale persona che per molti, aggiungo, purtroppo è sconosciuta?
Francesco Annaratone , questo era il suo vero nome, apparteneva al “casato” di mio padre, ma, per vari motivi derivanti da matrimoni avvenuti nel passato tra famiglie parallele a quelle dei miei antenati, era mio zio per via materna, cose che succedono nei paesi . Quando iniziò il mio periodo di sfollamento a Frascarolo lo zio Cecco era ormai in pensione dopo aver prestato servizio come capo-stazione presso la stazione ferroviaria di Mortara. Fisicamente si presentava come il classico bell’uomo: con portamento alto e fiero, un viso aperto inglobante due occhi penetranti e sprigionanti tutta l’intelligenza che realmente possedeva unitamente alla sua riconoscibile e riconosciuta originalità. A proposito citerò un particolare che oggi farà sicuramente sorridere ma allora, dati i tempi, era di una notevole importanza: essendo un capo-stazione, quindi un pubblico ufficiale, sarebbe stato obbligato ad indossare la camicia nera, ma, essendo notoriamente antifascista (non dichiarato, altrimenti non avrebbe potuto esercitare quella professione) si è sempre rifiutato di indossare quell’indumento, però naturalmente le camicie nere le possedeva. Dopo la caduta del fascismo, il 25 aprile, “al Cecu” cominciò a passeggiare per le strade del paese indossando, pensate un po’, la camicia nera! Però, nonostante questa sua originalità, era un uomo, anche merito appunto della sua grande intelligenza, di una estrema bontà d’animo e di una immensa generosità: lui si prodigava per tutti, si pensi che addirittura, per passare il tempo, si prestava a fare da fattorino al panettiere Vecchietti.
Erano tempi grami per tutti, quelli di guerra, sia per le cose materiali come ho già riferito, ma per quanto riguarda la mia famiglia erano tempi grami anche dal punto di vista morale ed affettivo: mio padre era in guerra, per cui il nucleo familiare era incompleto con tutte le conseguenze che ne derivavano, ma l’adorato ed indimenticabile zio Cecco faceva di tutto per sopperire a questa mancanza e si prodigava in maniera che a volte poteva sembrare ossessiva (ma era solo apparenza) per fare da padre sia a me che a mio fratello che essendo di otto anni maggiore di me, quindi più maturo, poteva sopportare più agevolmente questa carenza affettiva.
Quando mia madre si preoccupava per le scarse nozioni scolastiche che mi venivano impartite, lo zio Cecco tutti i santi pomeriggi, cascasse il mondo, era al mio fianco per farmi eseguire i compiti e per colmare le lacune nozionistiche che inevitabilmente, per i motivi ormai noti, avevo. Qui sta per iniziare il secondo tempo di quel film di guerra la cui proiezione avevo poco prima terminata, in quanto i tedeschi, con il loro arrivo, avevano requisito l’edificio scolastico ma naturalmente o bene o male (sicuramente più male!) l’anno scolastico doveva continuare, ma come?
Le nostre care maestre misero a disposizione, chi ne aveva la possibilità, un locale che doveva essere anche il più spazioso possibile, da adibire ad aula scolastica. Naturalmente, come è comprensibile, si rese necessario unire anche due classi appunto per mancanza di locali, con il conseguente ed inevitabile “caos” didattico che si ripercosse, nonostante la buona volontà dello zio Cecco di sopperire a tutto questo, sulla già citata “messa di mani nei capelli” del mio nuovo maestro incontrato al ritorno a Milano a guerra finita.
Ma il film di guerra sta volgendo al termine. Dopo i vari sbarchi avvenuti sulle coste dei nostri mari meridionali, l’esercito degli alleati comincia a risalire la penisola fino a giungere sulle rive del Po e naturalmente anche sulle rive del “nostro Po” intimando ai “nostri” tedeschi di ritirarsi altrimenti avrebbero bombardato il paese. Si può immaginare come venne accolta questa “notizia”. La mia giovane memoria ha incamerato frenetiche corse di tutte le persone che contavano, tra le scuole, il municipio ed il castello (dove vi era il comando) naturalmente per fare opera di persuasione verso i nostri invasori ad abbandonare questo avamposto ed a ritirarsi in buon ordine. Inutile dirlo, una notevole parte in questa operazione l’ebbe lo zio Cecco che instancabilmente (non ricordo se con o senza camicia nera!) si prodigò per salvare il paese. Alla fine, finalmente i soldati tedeschi fecero “le valigie” e si diressero a nord e tutti trassero un profondo sospiro di sollievo.
Ma anche in questa circostanza ci sarebbe stata la necessità di avere a disposizione una moderna telecamera per immortalare una sequenza cinematografica degna del più satirico dei registi, da inviare, naturalmente per farlo imbufalire ancora una volta, al “Furher”. L’attendente del capitano Raithemaier, che ospitavamo in casa nostra, come si ricorderà, nel “preparare le valige” per abbandonare per sempre l’Italia, indossò diligentemente l’uniforme con tutti gli annessi e connessi d’ordinanza, si calzò sulla testa pelata l’elmetto, si mise a tracolla il fucile e, pensate un po’, si mise sottobraccio un catino di ferro smaltato di bianco e si avviò verso la camionetta che l’avrebbe portato chissà verso quale destinazione. Non si creda che quanto descritto sia frutto della mente di un bambino con molta, forse troppa fantasia, vi posso assicurare che le mie cellule cerebrali, e non solo le mie, hanno memorizzato veramente quanto descritto. E sullo schermo del nostro cinematografo tridimensionale comparve la parola FINE di questo terribile film di guerra che tutti noi abbiamo interpretato non da attori professionisti ma da attori presi dalla strada come è avvenuto qualche anno dopo per mano dei nostri grandi registi neorealisti.
A ”spettacolo” finito la sala cinematografica incominciava a svuotarsi ma si riempivano le strade come se nulla fosse accaduto. Ma come tutti gli spettacoli che si rispettano anche questo ha avuto un piccolo seguito, almeno dalle nostre parti. Dirò, sempre rimanendo nell’ambito cinematografico, se la guerra che stava per finire definitivamente era da considerarsi un “film colossal”, la piccola appendice di spettacolo che si stava proiettando sugli schermi delle nostre campagne relativamente al movimento partigiano era da considerarsi un semplice “telefilm”, rispetto naturalmente all’importanza che hanno avuto i partigiani in altre zone d’Italia, e non me ne vogliano gli ex difensori della Patria delle nostre parti, ma se fanno un piccolo esame di coscienza ricorderanno che il paragone con i loro ”colleghi” del centro Italia o delle Alpi non reggerebbe.
E arrivò anche la contraerea tedesca: la Flak
A questo punto, però, un piccolo passo indietro mi sembra doveroso. Contemporaneamente alla piccola invasione tedesca del reparto Genieri, nelle immediate vicinanze del paese, ma no nel centro abitato e precisamente a ridosso del ponte sul Po si insediarono i componenti, sempre tedeschi, di una batteria contraerea , la famosa “FLAK”, i cui militari indossavano una elegante uniforme azzurra. I cannoni di questa batteria avevano il compito di difendere dalle incursioni aeree inglesi il ponte sul fiume (cosa, quest’ultima che non riuscì loro con grande successo, vista la necessità di inviare i genieri per supplire al fatto che il ponte venne ugualmente semidistrutto). Però l’altro scopo era anche quello di difendere l’operato dei colleghi, come si è detto, ovvero quello di costruire quotidianamente il ponte di barche in sostituzione di quello in muratura ormai inservibile.
Un giorno, all’approssimarsi del Natale, vennero affissi sui muri del paese dei manifesti che gentilmente “chiedevano” ai frascarolesi (quel chiedevano naturalmente si doveva leggere “obbligavano”!) di “invitare a pranzo”, appunto per il giorno di Natale, un ufficiale della Flak, recandosi al comando per dichiarare le propria disponibilità, cosa che tutti facemmo senza batter ciglio. Il rifiutare “l’invito” delle truppe tedesche era una cosa da evitare nella maniera più assoluta non immaginando (o immaginando benissimo!) quali sarebbero state le conseguenze, naturalmente non di certo limitandosi ad una tiratina d’orecchie!
Il giorno 25 dicembre, a mezzogiorno in punto, quando l’ormai noto “campanone” emetteva il suono del dodicesimo rintocco, in casa nostra sentimmo suonare il campanello della porta d’ingresso: tutti noi della famiglia ci recammo al cospetto di quella porta per attendere con ansia e nello stesso tempo con un pizzico di timore (era sempre un appartenente all’esercito tedesco!) il nostro ospite. Mia Madre aprì il battente dell’uscio e ad un metro di distanza ci si presentò al nostro cospetto, nella sua elegantissima divisa azzurra, un ufficiale della FLAK, che, dopo un’impeccabile saluto militare con relativo e rumoroso sbattimento di tacchi, si presentò in perfetto italiano: “Sono il comandante Wilelm Sigfrid Fink, ufficiale della FLAK” ed in seguito si inchinò in un perfetto e galante baciamano a mia madre. Una volta entrato in casa, venne fatto accomodare nella nostra modesta sala da pranzo, per l’occasione scaldata con una stufa a legna ricuperata chissà dove, dopo di che l’ufficiale porse, sempre a mia madre un pacco come omaggio in cambio dell’ospitalità ricevuta. Dopo gli ulteriori convenevoli rivolti soprattutto al sottoscritto, essendo il piccolino della famiglia, e poi a mio fratello, ci sedemmo a tavola per consumare il pranzo natalizio che mia madre cercò di preparare il meglio possibile considerando la difficile reperibilità di molti ingredienti.
Naturalmente, durante e dopo il pranzo, il distinto capitano si prodigò a conversare in particolar modo con mio fratello, allora studente ginnasiale, e con mia madre naturalmente in un perfetto ed impeccabile italiano, in quanto ci riferì che nella vita civile, in Germania, era professore universitario di letteratura latina ed italiana. Naturalmente il comportamento di quell’ufficiale si dimostrò di uno stile e di un “savoir faire” senza una pecca e degno della persona più gentile che si potesse immaginare. Non si pensi che quanto detto sia rimasto totalmente nei miei ricordi, sarebbe impossibile, ma mi fu riferito in seguito dai miei cari. Non si pensi, inoltre, che questo sciorinare di elogi siano sintomo si pangermanesimo, ma non si può fare di tutte le erbe un fascio e se un essere umano, proveniente da qualsiasi parte del mondo ed appartenente a qualsiasi ideologia politica, si dimostra gentile, le buone maniere esulano da qualsiasi pregiudizio razziale o politico.
Ovviamente ad una certa ora il nostro ospite si congedò non smentendo la sua ormai riconosciuta distinzione e gentilezza non prima di essersi prodigato in innumerevoli ringraziamenti e complimenti rivolti alla totalità della famiglia. Ovviamente, ed era il minimo, ricambiando con la stessa gentilezza e cordialità i saluti, naturalmente pensando che quell’ufficiale dall’elegante divisa azzurra non l’avremmo mai più visto sia perché il mondo è tanto grande (ed allora più di oggi), sia perché era un soldato ed in tempo di guerra, e che guerra, un soldato potrebbe anche……! Invece, incredibile ma vero, un giorno del 1948 durante le ferie che la mia famiglia ed io stavamo trascorrendo ad Ortisei, sulle Dolomiti, mentre si stava passeggiando nella strada principale del paese sentimmo una voce maschile che ci apostrofava: “Signori Annaratone, Signori Annaratone” ci guardammo un po’ in giro per cercare di individuare la direzione dalla quale proveniva quella voce; dopo averla individuata ci trovammo di fronte all’ex “bell’ufficiale in divisa azzurra”, naturalmente ora in borghese. E le stesse gentilezze e cortesie di quattro anni prima si rinnovarono nei nostri confronti non smentendo la classe innata di quel gentiluomo teutonico, ma pur sempre un gentiluomo.
La comica finale
Come tutti gli spettacoli cinematografici che si rispettavano, datati negli anni ’40, anche questo “film di guerra” deve avere la sua “comica finale”. Naturalmente i protagonisti non possono che essere i militari tedeschi che, come già detto, avevano preso possesso del nostro tranquillo paese ed in modo particolare col requisire alcune camere delle nostre case per alloggiavi. Voglio ricordare che a casa mia aveva preso alloggio il Comandante Raithemaier col suo attendente Otto Leman. La mia famiglia, in quel periodo, era composta da mia madre, mio fratello Donatello, il sottoscritto e la donna di servizio Rina.
Un particolare importante facente parte della scenografia della “comica” che sto per descrivere, consisteva di una rudimentale installazione che i militari tedeschi avevano collegato al loro arrivo in paese. Si trattava di aver appeso in varie parti del paese dei pezzi di rotaia ferroviaria, della lunghezza di circa un metro, che, battendolo con un martello, aveva la funzione di segnale d’allarme da azionare in caso di pericolo di ogni genere. Ovviamente l’allarme veniva dato anche periodicamente solamente per esercitazione.
Una mattina, in tutto il paese, cominciarono a sentirsi i rintocchi di quell’allarme, cosa che per noi paesani non faceva ne caldo ne freddo, ma i militari della Wehrmacht dovevano bardarsi con tutta l’attrezzatura di guerra in qualsiasi luogo si trovassero, in caso contrario drastiche punizioni.
Ad un tratto, in casa nostra si cominciò a sentire la Rina che da piano superiore urlava: “Signora, Claudio, Donatello, venite a vedere!”. Ma il suo urlare non aveva il tono tragico, come se fosse successa una disgrazia, bensì si notava chiaramente un sottofondo allegro. Nel sentire quel richiamo a squarcia gola, ci siamo fiondati a piano superiore dove la Rina si trovava davanti alla porta aperta della camera occupata dai tedeschi, ridendo come una pazza. Ci avvicinando con una certa apprensione, data la situazione e una volta giunti davanti alla porta, ci si presentò uno spettacolo veramente da “comica finale”: Otto Leman, l’attendente, era seduto sul bordo del letto, indossava la divisa completa, elmetto in testa, fucile in mano e maschera anti gas indossata su quel faccione che stava sudando come una fontana! Le nostre risate non gli facevano fare una piega, gli ordini erano ordini anche se nel chiuso della camera non lo vedeva nessuno. Solamente dopo una ventina di minuti, quando suonò il cessato allarme, Otto si accinse a quella specie di spogliarello liberatorio riponendo nell’astuccio la maschera antigas madida di sudore. E calò il sipario anche in questo ultimo atto.
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Mi sembra sia stato utile e significativo ricordare questi episodi anche per dimostrare che gli “attori” che rappresentavano il dramma della guerra non erano dei professionisti, ma molti di loro, forse moltissimi (da entrambe le parti, naturalmente) erano attori presi dalla strada secondo i più classici crismi, come si è già accennato, dei films neorealisti: attori bravissimi ma pur sempre uomini comuni e senza alcuna attitudine drammatica, leggasi bellica!