La scrittura vuole
lasciare alla vostra immaginazione
la capacità di riempire
le sue lacune
Il tempo di un’amicizia.
Parte I.
La scuola era finita da pochi giorni e, anche se ci conoscevamo da appena quattro mesi, io e Francesco stringemmo una bella amicizia. In classe, fino al mio arrivo, era visto dai compagni come il leader del gruppo, ma più che leader era semplicemente il più grande d’età e il più cattivo. Che poi cattivo non è il termine giusto, era un ragazzo buono, questo lo sapevano tutti, ma andava preso per il verso giusto, se no rischiavi di trovartelo da un momento all’altro incazzato come un toro, con le sopracciglia strette intorno al naso, la fronte bassa e gli occhi puntati addosso come due spilli neri.
Io arrivai in quella scuola a Gennaio, era il secondo anno delle superiori e venivo da un anno e mezzo vissuto lontano dalla mia città.
La scelta della classe non fu così difficile visto che la scuola era composta da una prima e da una seconda, nel complesso eravamo una trentina di alunni. Una volta finito l’anno, salvo bocciature, avremmo continuato il percorso di studi nella sede principale dell’istituto che era in provincia, a un’oretta da casa. Ma io non ci pensavo, sapevo che, promosso o meno, non sarei ritornato lì.
Era un po’ come una vacanza e mi sentivo fortunato ad abitare un’aula che affacciasse sul mare.
L’inserimento con i compagni fu buono, avevo già cambiato due classi di due istituti, di due città diverse e cominciavo ad abituarmi alle “migrazioni”, anche se questa, a differenza delle altre, mi proiettava tra chi parlava il mio stesso dialetto. Eravamo una decina, tutti più o meno diversi, due/tre bonaccioni, un paio di punk, due fissati con i solarium e le cinture della DSquared, una sola ragazza, io e Francesco. Lui era tra i ragazzi più educati della classe e cercava di stare fuori dalle marachelle che noialtri escogitavamo per ammazzare il tempo nelle ore di lezione di quei professori che non riuscivano a catturare la nostra attenzione.
La più divertente che ricordi era sicuramente il lancio dal gessetto con lo “spara-fasulli”, che tradotto letteralmente sta per “spara-fagioli”, costruito con il collo di una bottiglia di plastica tagliato a imbuto e un palloncino messo al posto del tappo, questo serviva da serbatoio per i proiettili di gesso, da molla e da grilletto. Bastava distendere il palloncino verso di sé e rilasciarlo per avere un effetto fionda, il getto era notevole considerato che i nostri obiettivi erano i pedoni che passeggiavano sul marciapiede dall’altra parte della strada.
Non ci fu nessuna rappresaglia a seguito dei nostri agguati, evidentemente non fummo mai abbastanza precisi o coraggiosi da colpire gli obiettivi.
Da Aprile cominciarono le belle giornate e fu davvero difficile rinunciare ai bagni per seguire le lezioni di professori che ci facevano sentire così piccoli e inutili. Forse per loro era un’offesa vedersi assegnata una classe di dieci ragazzini in una sottospecie di scuola con due camere adibite ad aule, per qualcuno urlarci in testa che dovevamo vergognarci del nostro disinteresse era l’unico messaggio da imparare, per qualcun altro non valeva la pena neanche arrabbiarsi, ripeteva ogni giorno come una cantilena la parte del programma didattico che spettava a quel giorno. Credo non si sia mai chiesto se qualcuno lo ascoltasse, un po’ come un treno metropolitano che non si ferma alle stazioni, ma ha come unico obiettivo arrivare al capolinea e spegnere i motori. Avevamo 15 anni, i nostri coetanei studiavano “I promessi sposi”.
Tutto ciò che non mi stimolava in quell’ambiente malsano e così sordo alle mie aspettative, non faceva altro che accrescere una grossa distanza tra me e tutto il resto. Era un airbag che si gonfiava ogni giorno tra la realtà che immaginavo e quella che mi si ripresentava davanti agli occhi.
Avevo la convinzione, ma non la certezza, che quello sarebbe stato solo un periodo di passaggio, avevo già bene in mente quale sarebbe stata la mia strada e il mio destino e così aspettavo solo una nuova chiamata, una nuova avventura, una nuova città e una nuova scuola.
L’anno finì ed io passai, non ricordo come, non ricordo perché. Ricordo bene l’odio profondo per i mezzi pubblici, tabelloni con gli orari che non coincidevano mai, le calche soffocanti. Dovevo adottare delle contromisure alle due cose che più mi infastidivano, la folle sui bus e i bulli dei bus. Le prime le evitavo, quando ero esasperato, scendendo diverse fermate prima della scuola, camminavo per un paio di km e arrivavo tardi a scuola. Al ritorno spesso mi trattenevo il più possibile in centro per far smaltire la massa del doposcuola. I secondi cercavo di evitarli mettendomi in piedi alla testa del bus, di solito chi aveva voglia di fare una rapina o avere una discussione si sedeva in fondo.
Odiavo l’autobus perché io volevo immaginare dove andava tutta quella gente e che vita viveva, ma la gente spingeva e sgomitava, e bisognava avere sempre gli occhi aperti per difendersi. Non c’era posto per me.
Fino ad allora me l’ero sempre cavata abbastanza bene con la strategia di difesa, ma sentivo il bisogno di essere più forte, perché non mi piaceva abbassare la testa ed evitare lo sguardo di sfida di un ‘teppistello’ qualsiasi in compagnia dei suoi amici e, più che la paura, mi faceva tremare l’idea di dargliela vinta se provavano a prendermi in giro. Quello fu sicuramente uno dei motivi che mi fece avvicinare a Francesco e fu sicuramente uno dei motivi che fece avvicinare Francesco a me. A scuola non ci toccava nessuno ed erano gli altri a preoccuparsi semmai di noi, ma fuori, da soli, eravamo leoni circondati da branchi di iene. Insieme anche per strada riuscivamo ad essere spensierati quanto basta, non cercavamo grane e le grane ci evitavano e già questo voleva dire che l’accoppiata era vincente.
La scuola era finita da pochi giorni, non avevamo i motorini e andavamo spesso al mare coi mezzi pubblici, in due li odiavamo meno.
Quella mattina forse eravamo distratti, forse assonnati, troppo rilassati e in quella savana del centro non potevamo permettercelo ancora. Lui veniva da un quartiere della periferia, io da un quartiere che univa il centro storico alla periferia. Avevamo 15 e 16 anni ed eravamo inviati ordinari in quartieri di confine durante una guerra che faceva quasi un morto, ammazzato, sparato, al giorno. Da casa mia a casa sua la distanza si poteva contare dal numero di posti di blocco dei carabinieri, erano 4 km circa, ce n’erano una ventina. Una camionetta e dei mitra ogni 200 metri, provate ad immaginarli lungo una strada senza curve e vi si presenterà uno scenario di conflitto mediorientale addobbato di strade e palazzi occidentali. Uscire da quei posti era andare al luna park per me, per lui, figlio di un ex carcerato per reati di camorra, doveva essere ancora meglio.
Il sole era già caldo, ci eravamo seduti su una panchina la centro della piazza dove non c’era nessuna fermata per il mare, non ricordo perché. Ridevamo, dentro sicuramente, fuori eravamo lenti quando l’ombra di un ragazzo alto e magro ci si parò davanti.
Voleva soldi e cellulare, ce li chiese con una frase in dialetto breve, con una voce senza accento. Non ci guardammo. Non rispondemmo. Ci mostrò il coltello. Non era uno scugnizzo, uno che voleva fare il guappo, era un tossico che aveva bisogno di farsi una botta e ci aveva fregati. Veniva a pretendere il suo ossigeno. Avevamo i soldi per il biglietto del bus e per i panini, non li tirammo fuori. Avevamo due cellulari vecchi e stravecchi, gli diedi il mio e capì da solo che poteva andarsene. Dietro la sua ombra che si allontanava scorgemmo a una quarantina di metri una pattuglia della polizia ferma. Ci chiedemmo in silenzio cosa cazzo stessero guardando mentre noi eravamo stati rapinati davanti a loro, ci avvicinammo e, frenato l’istinto di prenderli a ‘male parole’, denunciammo il fatto.
Sono errori che non ho più commesso.
Parte II
La coppia di poliziotti, un uomo e una donna, ci accompagnarono in questura, che distava 500 metri da dove li avevamo trovati, era comunque più distante del tizio che se l’era squagliata col mio vecchio e stravecchio cellulare.
Passarono 10 minuti e cominciai a chiedermi se avessi fatto la scelta giusta a rivolgermi a loro piuttosto che fregarmene, lasciarli tranquilli a prendere il caffè o a fare due chiacchiere coi commercianti e prendere la via del mare.
Ci portarono in un ufficio e ci lasciarono con altri due agenti.
Ci fecero delle domande, poi presero un album con delle foto segnaletiche per individuare il colpevole. Iniziai a sfogliare e mi trovai davanti un ragazzo che avevo conosciuto l’estate precedente su un’isola di un’altra regione. Facemmo amicizia e ogni tanto organizzavamo ancora qualche uscita insieme. Andare in giro con lui e per i vicoli dei quartieri del centro era come fare dei giri su una giostra gratuita e se volevi non finivano mai. Lo chiamavamo ‘Pisolo’ ma non dormiva mai, almeno non la notte. La fidanzata amava mettergli il casco in testa per suonarlo come un bonghetto, lui amava terrorizzare chi gli capitava a tiro. Ma questa è un’altra storia.
Mi trattenni dal chiedere al poliziotto che cosa avesse combinato, ma non ero poi tanto stupito per Pisolo quanto per il caso che mi vedeva di fronte a lui, ma in un certo senso dall’altra parte della barricata.
Il mio posto non era con lui e non era dov’ero, ma avevamo scomodato due agenti in servizio in strada e due in ufficio, qualcosa ora dovevano ricavarci.
A una certa, riconosciuto il soggetto della rapina sull’album delle figurine, ci presero e ci caricarono su una volante. Attraversammo il centro storico nella gazzella, seduti sui sedili posteriori dietro ad una griglia di ferro che ci separava dal pilota e dal suo collega. Passammo in mezzo alla folla che trafficava le strade e ad un certo punto non sapevo più se il reato lo avessi subito o commesso. Che rivolgermi a loro fosse stato un errore, non era più un dubbio.
Arrivammo in un’altra questura, questa la conoscevo, perché famosa e perché da lì ci vedevo uscire gli uomini del reparto speciale anti-scippodella polizia, tutte le mattine quando andavo a scuola. E ne avevo sentite storie su di loro, facevano paura sulle loro motociclette quanto i criminali.
Erano tutti più reattivi lì dentro, poche divise, c’era aria di caserma. Ci separarono e passammo non so quante ore seduti in due stanzoni diversi.
Da Francesco non ho mai saputo cosa accadde, nel mio entravano ed uscivano uomini in borghese, facevano domande, battutine, uno mi si avvicinò alle spalle e stringendomi forte con le due mani ai lati del collo mi disse in dialetto “sei grande e grosso, potevi pensarci da solo a quel tossico”.
Mi si fermò il respiro per qualche momento e mi passò davanti agli occhi un flash dell’anno precedente in cui l’istitutore del convitto che mi ospitava mi disse più o meno le stesse cose riguardo ad un ragazzo più grande di me che si era preso troppe confidenze. La via diplomatica non funzionò, anzi il diplomatico interpellato mi convinse proprio che in quei casi non esiste mediazione. Nel convitto mi guadagnai lo stupido rispetto che si guadagnano gli animali nella giungla, dove vige la legge del più forte.
In quella stanza di caserma iniziai a covare un gran fastidio per tutta quella faccenda, avevo solo voglia di tornare a casa e di farmi una doccia per ripulirmi di tutta la merda con cui mi ero sporcato.
Nel pomeriggio arrestarono il ragazzo, lo infilarono in uno stanzino in mezzo ad altri due ragazzi. Me lo fecero guardare da una porta con degli spioncini, lo riconobbi e mi lasciarono andare. Mi riportò a casa il padre di Francesco, non mi rivolsero quasi parola sulla strada di ritorno. La legge dell’omertà, la legge di chi sa cosa vuol dire passare degli anni in una galera, la legge di chi con la legge non vuole più averci a che fare decretavano il silenzio in quell’automobile. Un silenzio, che a distanza di anni, ricordo solenne, un silenzio che tra me Francesco non si è più interrotto. Non c’era più posto per le parole nella nostra amicizia, non era più il tempo per andare al mare o fermarsi al centro a farci due risate come fanno i ragazzi a 15 anni. Dovevamo crescere e farlo velocemente, in silenzio, avvertendo ogni giorni di più la distanza col mondo.
Non andai mai al processo.
Di lì a poco io sarei partito per una nuova esperienza lontano dalla città, Francesco si sarebbe potuto godere a pieno il padre, che era uscito dopo anni di galera, e sarebbe, a sua volta diventato genitore.
Come un uomo libero
Su una terra libera
Andavo verso il mare
Che insegna la libertà
Ma la libertà
A cosa serve
Se non la si sa usare?
Decisi allora di rincorrere navi ed altri mondi
Col pensiero e con gli occhi
Fissando gli orizzonti
Che potessero spiegare tutti i miei perché
E cercando mi persi
Innumerevoli volte
Fino a scoprire che un giorno
La mia casa era cambiata
Quella sera in piazza
Fucilarono le idee
Ed io gambizzato
Imparavo a strisciare
Come un uomo non libero
Su una terra non libera
E andavo verso il mare libero
Che conosce la libertà
Ma la conoscenza
A cosa serve
Se non la si può usare?
Così presi l’ultima boccata d’ossigeno
Ispirai talmente forte
Da farmi bruciare i polmoni
Pianti, urla, calci
Proprio come quando tutto ebbe inizio
E ritornai verso il mare libero
Che insegna la libertà
E nulla di nuovo imparai
Oggi mi guardo le gambe piene di piombo
E ancora cammino
Il sangue va via dagli occhi, non dal naso
Il suo sapore di ferro freddo, lo sento
Mi accompagna ad ogni passo
Ma sono ancora vivo.