Quello che segue è il racconto di una testimone.

“Non so veramente chi sono. Un nome vero mia madre non me l’ha mai dato. In realtà mia madre non l’ho mai conosciuta. Comunque mi chiamavano 624. Sono cresciuta in un capanno, con alcune mie coetanee. Ognuna di noi possedeva un orecchino col proprio nome o meglio numero … spesso parlavamo della sfortuna che avevamo avuto ad essere nate femmine, perché i maschi partono prima per arrivare alla libertà, ciò nonostante fantasticavamo sul giorno in cui sarebbe toccato a noi partire.

Quel giorno arrivò, io non mi reggevo in piedi dall’emozione, forse per questo mentre ero in fila con le altre per salire su un camion, un uomo mi tirò una sprangata sulla schiena.

Quando si fermò e ci fecero scendere, non era come ce lo aspettavamo. Non c’erano i prati fioriti, i ruscelli o le colline, ma altri capannoni e da lì provenivano dei lamenti terribili, a dirla tutta ci spaventammo moltissimo. Ci fecero entrare nel primo capanno, ci disposero in fila lungo un palo d’acciaio al quale ci legarono per il collo, legarono anche tutti i nostri arti tanto da immobilizzarci, non capivamo. Arrivarono degli uomini con delle provette e altri arnesi che non saprei descrivervi, e ci…ci violentarono tutte, era straziante, un dolore che non augurerei a nessuno.

Fummo tenute in quella stanza, forse per settimane, poi alcune furono portate fuori e altre insieme a me furono condotte in un’altra stanza.

Col tempo nessuna aveva voglia di parlare, eravamo in tante ma sentivamo fin dentro le ossa il gelo della solitudine, era come stare sole. Si eravamo proprio sole, ciascuna col suo dolore, sembrava che la vita ci stesse punendo per il semplice fatto di essere nate femmine. Di tanto in tanto degli uomini col camice bianco venivano a controllarci, erano passati quasi nove mesi, quando cominciai ad avvertire dolori lancinanti al ventre, erano le doglie; dopo un lungo travaglio riuscii a partorire ma il mio piccolo fu immediatamente portato via, lo strapparono dal mio grembo, non seppi neanche se fosse maschio o femmina, non conobbi nulla del suo destino, fu il giorno più brutto della mia vita, io sapevo cosa significasse crescere senza conoscere la propria madre e non era quello che volevo per mio figlio.

Dopo il parto, per quanto stessi male altri uomini mi costrinsero a uscire dal secondo capanno e ad accedere al quinto.

Attaccarono uno strano macchinario alle mie mammelle, continuavo a non capire, ma non avevo più paura, ero stanca, non mi importava di cosa mi facessero, non sentivo più il dolore fisico, avevo solo voglia di morire, perché morta lo ero già. Capii che quel macchinario serviva a tirarmi il latte, quello che sarebbe servito a crescere il mio piccolo; quando per il continuo tirare mi provocò una forte infezione, le mie condizioni di salute erano molto scarse, specie perché rifiutavo di nutrirmi, così decisero che non servivo più. In fondo per loro ero solo una macchina da latte, dovevano farmi salire su un altro camion, ma non mi reggevo in piedi questa volta non era l’emozione, la forza mi mancava davvero.

Dovettero trascinarmi come una carcassa, in fondo a poche ore da lì era proprio quello il destino che mi aspettava, carne da macello.

Ora sono su uno di quei bianchi frigo dei supermercati con ‘ottimi prezzi’, ora sono la carne macinata con la quale state preparando le polpette ai vostri figli, ora sono la carne contenuta negli omogenizzati che sciogliete con tanta cura ai vostri neonati. Ma quello che mi domando ancora, senza pace, è perché tutto questo? Perché io che sono nata mucca devo essere trattata in questo modo da esseri nati dall’evoluzione di una scimmia?”

Siete rimasti delusi, perché a parlare non è stata una donna vittima di svariate violenze? Si forse le mucche non riusciranno mai a esprimere quello che provano, ma se ci mettessimo nei loro panni, ne uscirebbe qualcosa di molto simile a ciò che è sopra riportato.

I nuovi campi di concentramento – Articolo di Giulia Lepide