Ludovica

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Lo guarda vestirsi come un officiante meticoloso. È seduta sul bordo del letto. Non può fare niente per lui. Si mette a seguire la lenta discesa di una goccia d’acqua sui vetri: l’ultimo scroscio di pioggia l’ha lasciata lì, sola, come un’invitata ad una festa finita all’improvviso.

Suo marito esce mentre lei è ancora seduta sul bordo del letto.

«Oggi non vado a lavorare»; quella possibilità balena all’improvviso nella sua mente.

«Non vengo oggi, ho la febbre» dice al telefono. Si veste in fretta. Esce.

Il bar di Luigi è ancora chiuso, da tre giorni ormai,  “strano, è scappato anche lui” pensa. L’assenza di Luigi le fa sentire più forte la sua inadeguatezza: anche lei non è dove dovrebbe essere.

Recupera l’auto dal garage, si dirige verso il litorale. Non viaggia su quella strada da molto tempo. È felice di ritrovarla intatta, così come l’aveva vista l’ultima volta, quella sera: 365 giorni sono molti anche per la vita di una strada, in un anno può cambiare qualunque cosa, basta anche un giorno o un  minuto a volte.

Il mare questa mattina guarda placido le sue onde rincorrersi sul bagnasciuga. Ludovica lo conosce bene, conosce i suoi umori e la sua forza. Mentre lo guarda dallo specchietto retrovisore, prova la stessa gioia incredula di chi ritrova una persona amata che pensava persa per sempre.

Ludovica ama il mare. Ha trascorso tutte le vacanze della sua infanzia alla casa al mare di zia Ester e zio Valerio, con il fratello Lorenzo.

Non avevano cugini, gli zii non avevano figli e i loro genitori erano sempre alle prese con i lavori in corso di un matrimonio continuamente da riparare.

Zia Ester allora era una donna di trentacinque anni, piccola di statura con un corpo sottile: piccole caviglie, piccoli polsi, piccole dita. Una miniatura armonica. Negli occhi neri, uno sguardo malinconico, come un presagio o una notte di fine estate.

Zio Valerio la sovrastava, era un uomo altissimo, poderoso. Un ingegnere edile con la passione per le immersioni subacquee.

Le favole che raccontava ai nipoti erano tutte ambientate in Malaysia, storie vere delle sue immersioni in quella terra in cui era ritornato mille volte, dove aveva scattato miriadi di fotografie e ne aveva tappezzato poi tutte le case in cui aveva vissuto. Voleva ricrearsi attorno quel mondo sommerso in cui si sentiva pacificato e fluido, non più spigoloso e inarrivabile. Solo quando parlava dei fondali marini si commuoveva di un’emozione arresa. I bambini, grazie a lui, conoscevano il pesce mandarino che compie la sua danza proprio sotto la superficie dell’acqua, i coralli di Sipadan e gli squali dalla pinna bianca, le seppie giganti e i grossi pesci pappagallo dalla fronte gibbosa.

La casa degli zii era una villa enorme, circondata da un giardino sorvegliato da piccole e grandi palme, al centro del quale emergeva, romantico, un gazebo in ferro battuto, avvolto da tende paffute dal respiro del mare. Ogni frammento di quella casa  si animava all’arrivo dei bambini, la loro energia era una corrente sanguigna che scorreva dalla cantina alla soffitta polverosa.

Il pavimento sconnesso con le piastrelle di ceramica blu che conservava qualche pretesa di bellezza, le cassapanche addossate ai muri con i loro lucchetti penzolanti invitanti, un vago alito di naftalina, l’orlo di ragnatela sul bracciolo di una sedia a dondolo; questo, ai loro occhi apparve la prima volta che entrarono in quella soffitta. Videro un vecchio grammofono con il collo lungo di dinosauro e la bocca spalancata e, al centro della stanza, uno specchio, con le lentiggini di ruggine, orme di piccoli baci depositati dal tempo. Ludovica aveva otto anni, Lorenzo sei. Si guardarono nello specchio quel giorno e furono  trasportati altrove, forse nel doppiofondo segreto del tempo. Una  malia sconosciuta animò le loro azioni da quel momento in poi.

Quando ritornarono a guardarsi attorno, ormai abituati alla fioca luce di una lampadina avvolta in una barba di polvere compatta, erano fuori dal  tempo. Aprirono un’antica cassapanca, tappezzata da una carta a fiori sbiadita. La cassa era piena di abiti dismessi.

Ludovica trasse dal ventre di quel relitto, e indossò, un cappellino nero con la veletta a pois dello stesso colore, un tubino di velluto con una rosa a mo’ di fibbia sulla cintola; il fratello, scavando accanto a lei, trovò un paio di scarpe décolleté, tacco a spillo e, in una scatola di latta adagiata sul fondo, una lunga collana di perle bianche. Sotto, piegati e avvolti in una busta trasparente, dei guanti candidi, lunghi come due braccia di panna lucida.

Eccola, davanti allo specchio, con la mano destra aperta sul cuore: Ludovica.

«Lorenzo metti un disco sul grammofono», gli chiese di fingere.

«Che cos’è il grammofono?»

Glielo indicò languida con un cenno della piccola mano guantata.

«Tu metti questi»  un cappello nero e una cravatta a rombi grigi e neri.

Danzavano davanti allo specchio, caracollanti e spavaldi, padroni  di quel loro tempo fuori dal tempo, perfettamente a proprio agio nell’enormità degli abiti fuori misura.

 «Zia Ester abbiamo giocato con i vestiti in soffitta».

«Me ne sono accorta, avete lasciato tutto in disordine; le patatine scottano fate piano.»

«Ci sei andata anche tu?»

«Sì, vorrei fare una fotografia a quel vecchio grammofono, ci facciamo un bel quadro, vi piace l’idea? Anzi, ne facciamo tre e due le regaliamo ai vostri maestri  di musica, che ne dite?»

«È più bello lo specchio.»

«Come mai ti piace quel vecchio specchio?»

«Non lo so, chiedi a Ludovica.»

«Perché lo specchio parla.»

Ridevano, felici di poter dire tutto quello che gli passava per la testa. Con i genitori non sarebbe stato possibile.

«Lo specchio parla, interessante, e cosa dice?»

Soffocavano le risate riempiendosi la bocca di patatine fritte.

«Lo specchio si conserva le persone.»

«Come le fotografie vuoi dire?»

«Sì.»

«Se ci passi davanti lui poi si ricorda e se ci passi dopo tanto tempo lui poi ti fa vedere com’eri.»

«Meraviglioso, avevamo uno specchio magico in soffitta e non lo sapevamo, dovrò informare zio Valerio appena tornerà.»

«Ma non fa vedere tutti, solo quelli belli, non si ricorda mica di tutti.»

«Di te si ricorderà, Lorenzo, perché secondo me sei proprio bello.»

«Ma perché tu sei zia Ester.»

E scoppiarono in una risata con uno spruzzo pirotecnico, alto, di patatine e d’infanzia.

Sono passati trent’anni da allora; quei due bambini hanno vissuto gran parte della loro vita: sogni, giochi, conquiste, compleanni, vittorie, sconfitte, a casa degli zii, al riparo dalla disfatta dei genitori.

Ludovica si ritrova davanti alla porta di quella casa. Ci è arrivata senza averlo neanche deciso. I ricordi le vengono subito incontro come cani festosi. Bussa. Attende.

La vecchia governante apre. La guarda. Non la vede da un anno. La fa entrare.

«Zia Ester come sta?» chiede.

«Quasi sempre seduta sulla sua poltrona negli ultimi tempi. Non ha niente di particolare, il dottore dice che è solo stanca.»

«Adesso sa?»

«No. Mi dispiace per suo fratello signorina, mi è dispiaciuto molto.»

Chiede di vederla.

Percorrono  l’ampio corridoio, poi la scala. Oltrepassano due finestre, aperte sul chiacchierio degli alberi e del vento appena soffiato dal mare. Arrivano davanti a una porta socchiusa. La governante la guarda, per un attimo lunghissimo: Ludovica è di nuovo lì.  Dopo tanto tempo. Perché? Se ne va.

Dorme. Di spalle alla porta, rivolta verso la finestra. Zia Ester dorme. Ludovica le si siede accanto, meravigliandosi di tutto lo spazio che quel piccolo corpo lascia vuoto. L’accarezza a lungo, le racconta tante cose, a bassa voce, concitatamente, come faceva quando era piccola e non vedeva l’ora di essere consolata.

Zia Ester era bravissima a consolare i bambini cantando:

 C’era una volta un drago

 che cadde dentro un lago

 fece una capriola

 e si schiarì la gola

La cosa lo fece ridere

ma ridere di cuore

non pianse neanche un po’

e il dolore gli passò.

Ludovica si assopisce e quel sonno è come un punto alla fine di un lungo periodo. Esce dal suo tempo per entrare in un tempo rallentato, denso, il tempo in cui vive zia Ester.

Sogna, in un dormiveglia sudato. È di nuovo piccola, corre su di una scala, è la casa di zia Ester, la riconosce dal grande quadro con la foto del grammofono, appesa nel salone subito a destra dell’ingresso.

Corre, conta le scale, otto nove dieci… quindici, apre. La porta della soffitta si spalanca, lei entra, concitata, non dà  il tempo agli occhi di abituarsi al buio, inciampa, riesce a non cadere, saltellando recupera l’equilibrio, si ricorda di cercare l’interruttore della luce che, fioca, inonda volenterosamente la stanza lasciandone la metà in penombra.

È lì davanti, finalmente, davanti allo specchio. È quello che sta cercando. Affannata per la corsa guarda,  respirando velocemente, la sua immagine riflessa. Vede un vestito a fiori rossi, gialli, un corpetto stretto su di una gonna ampia a pieghe. I calzini bianchi con il merletto sull’orlo e le scarpette rosse con la cinghietta a forma di farfalla. Il cerchietto rosa nei capelli biondi a caschetto e gli occhi pieni di lacrime.

Chiama qualcuno guardando dentro lo specchio, come se si aspettasse di vederlo comparire all’improvviso sorridendo: «Dai non piangere, volevo solo farti uno scherzo».

Ha già sognato quella scena molte volte.

Si sveglia. La  vede seduta sulla poltrona di fronte alla finestra, ma non guarda fuori, guarda lei e sorride, per niente meravigliata di vederla lì.

«Ciao. Lorenzo non è venuto?»

«No, zia Ester.  Come stai? Ti va di fare una passeggiata sulla spiaggia?»

«Che ore sono?»

«Non lo so.»

 Camminano lentamente, sul lungomare.

«Non sono venuta a trovarti prima perché i tuoi dottori mi hanno detto che dovevi riposare. Adesso come stai?»

«Lorenzo non è venuto?»  ripete, come se non avesse proprio sentito.

«No, zia Ester.  Non verrà»  aggiunge, sentendosi quasi colpevole.

«Non avete concerti da studiare?«

Io non suono più. Lorenzo è morto. Il suo violoncello e il mio violino sono chiusi in soffitta, qui, a casa tua.

«No, adesso no. Cosa fai tutto il giorno, viene a trovarti qualcuno?»

La guarda con un sorriso che chiede la sua complicità, forse.

Stiamo in silenzio, sono tanto stanca.

Camminano così, vicine, appoggiate l’una all’altra, come due tessere spaiate di un puzzle inghiottito dal vento.

«Ho sognato che Lorenzo era furioso con te perché avevi rotto il violino: lo hai rotto veramente?»

Non suono più. Vorrebbe dirglielo.

“Zia Ester Lorenzo è morto. Il suo violino e il mio violoncello sono chiusi adesso. Lorenzo è morto e con lui zio Valerio. Stesso incidente. Tu non ricordi. La notizia della morte di tuo marito, dicevano i medici, ti ha smarrita. È facile smarrirsi senza luce. Le persone come Lorenzo e zio Valerio se ne stanno lì, con quella loro meravigliosa grandezza, con tanta luce che avanza, leggere come grappoli di lucciole. Quando si spengono non c’è più rimedio alla notte nel loro mondo, le tenebre divorano velocemente anche l’ultimo residuo di quello splendore. Ci siamo persi in questo buio: io, tu, i miei genitori; a proposito, si sono separati, li vedo poco. Io mi sono messa dentro una vita qualunque, come un vestito tirato su in fretta, il tempo di chiudere una lampo, un lampo, corto circuito di una vita e il dolore piegato piccolo in qualche angolo del cuore, sperando di dimenticarlo lì, sotto un cumulo di altri ricordi. Zia Ester, sono finalmente qui, a ricordarmi chi sono, perché ho capito che se apro gli occhi la notte si rischiara.”

La sente tremare, capisce che deve riportarla a casa.

La riaccompagna alla sua poltrona.

«Ludovica.»

«Sì?»

«Lorenzo verrà con te la prossima volta?»

«No, zia Ester.  Non verrà», ripete a bassa voce.

S’incammina verso la porta, le sembra di aver lasciato il filo del suo aquilone.

«Ma io tornerò, non volare troppo lontano perché io ritornerò.»

Sale in soffitta, la porta è socchiusa. Entra. Cerca le custodie dei loro strumenti, le trova quasi subito. Le porta accanto alla specchio, le apre.

Accarezza le corde, una ad una, le riconosce dallo spessore, ad occhi chiusi, con una familiarità intima, straziante. Lascia le custodie aperte, di nuovo esposte all’oltraggio del tempo e della polvere. Sarà costretta a tornare per occuparsi, ogni volta, di quello che rimane.

Esce. È ora di tornare a casa. Francesco la sta aspettando.

Zia Ester guarda il mare, ora. Un pianeta azzurro apparentemente sempre uguale di cui lei conosce ogni increspatura. Da qualche tempo sta studiando di quanti colori può essere: azzurro, blu, indaco, cobalto, bianco.

C’è un azzurro, che il mare indossa pochi attimi dopo certe albe. È poco più di un’ombra: bisogna avere occhi attenti e una certa esperienza per riuscire a scoprirlo. Lei lo ha visto dopo tanto tempo che scrutava. Lo ha visto un giorno e la dolcezza di quella visione non  le ha lasciato dubbi sul nome da dare a quell’azzurro.