Continuavano a cadermi gocce di pioggia sui capelli già bagnati e, mescolandosi con le lacrime del volto, si abbracciavano quasi a volersi consolare. Sotto il ponte non passava nessuno, d’altronde erano solo le 6.45 del mattino. Ero in ritardo: dovevo ancora prendere due metro e un autobus, pensavo che non sarei mai arrivata in tempo. Il capo nella migliore delle ipotesi mi avrebbe certamente redarguito.
Pensavo al lavoro mentre ero per terra con il volto livido e, intanto, cercavo di parlarle, perché lei era certamente più spaventata di me. Si chiamava Zahira, aveva la mia età e non la conoscevo fino a mezz’ora prima.
Stavo camminando per andare alla metro, come ogni mattina con passo spedito e cuffie alle orecchie. Era ancora buio e pochi erano gli avventurieri che, come me, azzardavano ad uscire a quell’ora.

Arrivai al solito vecchio ponte, nessuna illuminazione lo abbelliva e le gocce delle infiltrazioni erano l’unica compagnia immaginabile.

Quella mattina non riuscì ad ascoltare le parole della canzone perché c’era troppo chiasso. Spensi la musica e guardai avanti, ero distratta e non ci avevo fatto caso prima. Oramai ero nel ponte, c’ero io e una coppia che litigava. Lei cercava di difendersi, lui la tratteneva. Dalle parole intuì che erano di madrelingua araba e che la situazione era alquanto degenerante. Volevo chiamare qualcuno, ma nessuno era in prossimità e nessuna autorità avrebbe fatto in tempo.
Volevo passare, volevo non essere lì; ma c’ero e lei urlava e si dimenava.
Ricordo di avere pensato solo una cosa: se fossi io al suo posto, se fossi io lì? Avrei voluto aiuto, avrei voluto che qualcuno si fermasse. Mi sono fermata. Immobile, l’ho guardato. Lui si fermò e mi disse: “Che cazzo vuoi, vai via puttana!” Intanto stritolava la mano di lei che piangeva e urlava e mi diceva solo: “Aiuto…”

“Lasciala o chiamo la polizia!” Urlai e, mentre lo dicevo, velocemente cercai di fare il numero.

Lui lo vide, buttò lei per terra e in un attimo mi trovai spalle al muro con un livido in volto. Si limitò ad un unico schiaffo e al lancio del telefono. Caddi per terra ma lui, per fortuna, se ne andò e lasciò me e lei sole, senza possibilità di contatto alcuno.
Fui io ad alzarmi, perché lei era impietrita e mi fissava impaurita.

“Chi sei?” Le chiesi.

Mi fece capire che quell’uomo era suo marito e che sarebbe dovuta tornare a casa perché non sapeva dove andare. Una storia come molte, pensavo, con i preconcetti che tutti abbiamo, ma che non viviamo sulla nostra pelle. Mi disse solo questo e io non risposi. Guardai in fondo al ponte per vedere se quell’uomo fosse andato via, ripresi il telefono rotto e ritornai da lei. Mi sedetti affianco e le dissi che saremmo andate a casa mia, dove avremo denunciato il fatto. Lei non voleva e mi diceva di andare via, ma io non potevo. Avevo iniziato. Dovevo finire. Era la prima volta che qualcuno mi metteva le mani addosso, era la prima volta che mi succedeva di trovarmi in una simile situazione, non era la prima volta che vedevo scene analoghe, come anticipo di un film d’orrore sempre uguale. Quella volta avevo vissuto sulla mia pelle il finale.

Continuavano a cadere gocce di pioggia sui miei capelli bagnati e, mescolandosi con le lacrime del volto, si abbracciavano quasi a volersi consolare. Erano le 6.45 e io volevo solo piangere.

La convinsi a venire, le dissi di andare ad un bar lì vicino; lì avremmo chiamato qualcuno. Disse di sì -forse per compiacermi-, si alzò e mi seguì.
Arrivammo al locale e subito il barista, che mi conosceva, capì che era successo qualcosa di grave. Lei non voleva entrare ma io insistetti affinché venisse dentro con me. Non volle. Chiesi al barista di prestarmi il telefono, feci una chiamata a casa senza perderla di vista e la presi sotto braccio. Ci sedemmo in attesa che mio padre venisse in macchina. Eravamo sedute e lei era sporca di sangue, il naso sanguinava ancora; non ci avevo fatto caso prima, ero troppo sconvolta.

Si alzò e le chiesi dove andasse.

Lei indicò il bagno. Erano passati cinque minuti, ma non era ancora tornata e un cliente doveva usufruire del bagno. Sentì battere contro la porta, ma nessuno rispondeva e io ebbi subito paura. Ordinai al barista di prendere la chiave. Ricordo nitidamente il rumore della serratura e lei, per terra, con le vene tagliate da uno specchio rotto. Non dimenticherò mai i suoi occhi sbarrati al suolo. Seppi nei giorni a venire delle ripetute violenze sessuali da parte di lui, seppi che era incinta, seppi molte cose, alcune delle quali i racconti quotidiani di vita anticiperanno già.

Guarì dopo giorni di ematoma e le vicende giudiziarie che seguirono già non mi interessano più, però ci penso ancora, come ogni mattina del resto! Sono le 6.45 e sto andando a lavoro, sono sotto il ponte, sempre io, sempre sola, ma non ho più paura di nessuno. Forse se quel giorno non fossi passata, lei non sarebbe morta, forse è colpa mia, riesco a pensare solo a questo; ma la storia non l’ho scritta io, è andata così.

Sono Eva, sono passati 5 anni e ho una figlia, si chiama Zahira.