A mia madre

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Mia madre si chiamava Giuseppina ma per tutti in pescheria era “la Peppa” che vendeva il pesce, le vongole e le crocette buone. Era una donna rispettata da tutti.

Ha lavorato fino allo sfinimento per non farci mancare nulla. Mi ricordo quando era giù di morale diceva: “Sai figlia mia se nasci sotto una cattiva stella non hai fortuna nemmeno se ti metti con le gambe in aria.” Certo per come le erano andate le cose non si poteva darle torto. Se volessi raccontare la sua vita non so quanti libri potrei scrivere. Quest’anno sono cinquant’anni che mi ha lasciato, così vi voglio raccontare un po’di lei per far capire che donna era, sento che lo devo fare per l’amore infinito che mi ha dato!

Terminate le scuole elementari decise di imparare a fare la sarta. Era diventata così brava che quando consegnava i vestiti le signore soddisfatte  le facevano sempre tanti complimenti.

A sedici anni  conobbe mio padre, un bel ragazzo moro non tanto alto ma con dei bei occhi verdi e lei biondina con gli occhi color del cielo. Come lo vide se ne innamorò.

Si sposò ed ebbe cinque figli. Purtroppo tre morirono piccolissimi a causa di malattie infettive. A quei tempi facevano strage di bambini. Solo io e mia sorella eravamo riuscite a superarle.

Quando gli è nato il primo bambino lei e mio padre erano impazziti dalla felicità. Ma la felicità era durata molto poco. A mio padre gli si velavano gli occhi ogni volta che ne parlava, specialmente del primo figlio.

Quante volte l’ho sentito raccontare la stessa storia.

Lui faceva il pescatore andava in mare con una barca a vela. Se il mare era in burrasca e non poteva andare a pesca, o se aveva la rete da riparare, prendeva il suo piccolino lo portava nella barca lo metteva seduto vicino e per farlo giocare gli dava il gomitolo del cotone che serviva per riparare la rete. Quando terminava la riparazione dei buchi, per riposarsi e per far respirare un pò di aria di mare a mio fratello, si sdraiava nella barca. Per farlo stare comodo se lo appoggiava sopra di lui e si mettevano a dormire. Una volta mentre dormivano mio padre sentì una cosa calda e bagnata che gli scorreva nella faccia era mio fratello che aveva fatto la pipì.

Per non fagli prendere freddo lo portò a casa in fretta.

Purtroppo quel bimbo tanto amato un giorno si ammalò di una malattia che non gli diede scampo. Povera mamma non aveva ancora vent’anni. Conobbe il dolore più grande che possa capitare ad una donna. Dopo un pò hanno avuto una bambina che ha riportato un pò di serenità e dopo di lei altri bambini. Mio padre con il suo lavoro non guadagnava molto. Per fortuna mamma cuciva qualche vestito così si andava avanti discretamente. Ma poi era scoppiata la guerra e mio padre con i bombardamenti non poteva andare a pesca tutti i giorni. Anche a mia madre era diminuito il lavoro, la gente non poteva più pensare a farsi i vestiti.

Tutti cercavano di mettere da parte i soldi per comprare il cibo dato che ormai la roba scarseggiava o si trovava solo al mercato nero.

Ma mia madre non si era persa d’animo aveva sentito che nella caserma i soldati cercavano le donne per far lavare la biancheria così si mise a lavare, stirare e rammendare. Con i pochi soldi che guadagnava andava a far la spesa. Però qualche soldato non aveva i soldi per pagarla ed in cambio c’era chi gli regalava il pane, chi qualche scatoletta e chi pezzi di carne avanzati dalla mensa. Come era buona. Pezzi di formaggio ch’erano talmente gialli che non sembravano fatti con il latte ma con le uova.

Insomma con la fatica della mamma avevamo il pranzo e la cena assicurata.

A me e a mia sorella ha dato due volte la vita. La prima perché ci ha messo al mondo. La seconda perché ci ha salvato dalle bombe. Un giorno mentre cuciva, tutto ad un tratto sentì che gli aeroplani stavano per bombardare. Quel rumore si avvicinava sempre di più. A quei tempi eravamo tre bambine piccole e lei capì che ci doveva assolutamente portare via. Proprio quel giorno mia sorella di 9 anni, la più grande, aveva la febbre alta. Quando mamma le disse che si doveva alzare in fretta, dovevamo scappare, stavano arrivando gli aeroplani che bombardavano, era troppo pericoloso rimanere lì.

Lei piangendo le aveva risposto che non riusciva ad alzarsi, le gambe non la reggevano.

Allora mia madre per spronarla si era messa strillare che doveva alzarsi in fretta se no potevamo morire lì. “Con le bombe non si scherza”. Difatti avevamo fatto appena in tempo a fuggire.

Non eravamo arrivate molto lontane che abbiamo visto saltare in aria la nostra casa…

Mia madre di fronte a questa tragedia era scoppiata a piangere. Ma poi ancora scioccata ci baciava incredula per quello che ci era accaduto. Disse:

“Ho perduto tutto. Ma il bene più prezioso sono riuscita a salvarlo. Ce l’ho qui tra le mie braccia.”

Da quel maledetto giorno eravamo finiti ad abitare in case di fortuna. Il freddo che abbiamo sofferto solo Dio lo sà. Certe volte quando andavamo a dormire dovevamo spostare il letto perché ci pioveva sopra. Se ripenso a quei tempi mi vengono ancora i brividi. Mia madre diceva che la guerra a chi faceva ridere a chi faceva stridere. A noi era capitato di stridere, eravamo precipitati nella miseria più nera. Finita la guerra i soldati erano partiti e mamma aveva ripreso a fare la sarta, ma ancora c’era troppa povertà ed il lavoro non arrivava.

Così aveva ripreso a fare la lavandaia, ma questa volta per i militari della caserma della celere.

I celerini erano così giovani che mia madre quando li guardava s’inteneriva. Li trattava come fossero figli suoi e loro la ricambiavano con affetto. Forse sentivano la mancanza dalla madre. Alcuni come la vedevano arrivare in caserma gli andavano incontro festosi chiamandola “mamma Peppa”. Anche mio padre era ritornato a pescare. Ma una notte mentre stava pescando all’improvviso si scatenò una bufera. Era rimasto in balia del mare per tre giorni e tre notti. Per tutto il tempo mia madre l’aveva aspettato sulla punta del molo. Al terzo giorno il tempo passò lentamente. Fu un’agonia. Cominciava a perdere la speranza di vederlo ritornare.

All’improvviso vede spuntare una barca. Era lui, lo riconobbe dalla vela, l’aveva cucita lei non si poteva sbagliare.

Con un mare così furioso non riusciva entrare in porto. Le onde con prepotenza lo scaraventavano verso la spiaggia. Si salvò buttandosi in acqua e raggiungendo la riva a nuoto. Arrivà sfinito. Ma vivo. La barca andò a sbattere sugli scogli e si era ridusse in mille pezzi.

Senza barca rimase disoccupato e quindi si campava con quello che guadagnava mamma.

Si dice che le disgrazie non vengono mai da sole. A volte sembra che la sventura ci prenda gusto a colpire le stesse persone.

Oltre ad aver perduto la casa, la barca, la bambina più piccola si era ammalata ed in poco tempo la perdemmo per sempre. Quanti dolori hanno dovuto sopportare. Quando ritornò la buona stagione per mangiare e per racimolare qualche soldo, tutti i giorni mio padre, mia madre, mia sorella ed io la mattina presto andavamo in riva al mare a pescare le vongole e i cannolicchi. Mi sembra ancora di sentire l’odore del sugo che mamma preparava per gli spaghetti o il profumo di mare che si spandeva per tutta la casa quando ci faceva la zuppa per cena.

Quanto pane inzuppavamo per riempirci la pancia.

Alcune volte le andavano a vendere al mercato. Mi ricordo che il babbo stendeva un fazzoletto per terra e sopra faceva tanti mucchietti di vongole e cannolicchi. Con quei soldi facevamo la spesa.

Il tempo passava e mio padre non riusciva a trovare  nessun lavoro. Così un giorno decise di mettersi a vendere il pesce con il carrettino. Al mattino presto andava al mercato ittico. Riempiva il carretto e via in giro per tutta la città. Per farsi sentire strillava:

Forza donne venite a comprare che oggi ho il pesce fresco, guardatelo quanto è bello è vivo ancora salta!”.

Mia madre aveva la schiena a pezzi e non ce la faceva più a fare la lavandaia. Decise di aiutare a mio padre. Per un pò lavorarono insieme. Poi lei aprì un banco in pescheria. Vendeva il pesce, le vongole, le crocette. Anche quel lavoro non era facile però era sempre meno pesante di lavare ed inoltre poteva guadagnare di più. Le crocette per farle diventare buone si dovevano lasciare per giorni a spurgare e si doveva lavarle con l’acqua del mare. Così la mattina mentre mio padre andava a comperare il pesce, lei caricava il carretto di ceste piene di crocette e le andavamo a lavare al mare. Come arrivava si metteva un paio di stivali che le arrivavano sopra le ginocchia.

A quei tempi le donne che portavano i pantaloni erano rare e lei vergognosa come era non li avrebbe messi mai.

Così prendeva il centro della sottana, la parte posteriore, quella anteriore l’appuntava sulla pancia con una spilla balia ed era come se indossasse dei pantaloni. Poi con una cesta alla volta colma di crocette entrava in acqua e le setacciava fino a quando non diventavano lucide. Quanta fatica per farle diventare buone! Lavoravamo tutti insieme. La vita aveva ripreso a scorrere con normalità. Finalmente si cominciava a guadagnare qualche soldo che mia madre cercava di mettere da parte per poter realizzare il sogno di affittare una vera casa. Era stanca di vivere in una catapecchia.

Purtroppo il suo è rimasto solo un sogno.

Qualche anno dopo è arrivato il giorno più brutto della mia vita. Io e mia madre avevamo passato tutta la mattinata in pescheria. Finito di lavorare siamo andate a casa di mia sorella che stava male ed aveva un bambino piccolo. Mangiammo insieme. Poi mia madre aveva preso il nipotino e l’aveva portato a casa nostra. Mi ero fermata a riordinare. Una volta finito salutai mia sorella e me ne andai. Arrivata a casa mia madre era sul letto a riposare e per fare dormire il bambino. Come mi sentì entrare mi chiamò e mi disse: “Ho un dolore insopportabile alla testa chiama il medico.” Noi non avevamo il telefono e di corsa andai a telefonare nel negozio sotto casa. Mi sembrava che il medico non arrivasse mai, allora disperata chiamai l’ambulanza. Come arrivarono capirono ch’era grave. La caricarono in fretta nell’ambulanza e partimmo con la sirena che urlava.

Ero terrorizzata dalla paura. Avevo vent’anni e poca esperienza.

Ogni volta che ripenso a quel momento mi si stringe il cuore. Mia madre prima di perdere conoscenza mi ha abbracciato con le lacrime agli occhi e mi ha detto: ”Figlia mia so che sto per lasciarti e mi dispiace che non potrò più abbracciare tua sorella. Ti prego fallo tu per me! Fino all’ultimo secondo il suo pensiero era per noi.”

Sono passati cinquant’anni ma la ferita che ho nel cuore sanguina ancora.