Grida sulla pubblica piazza la sua donna: “Mi trova tanto bella da adorarmi, per cui farò il mestiere degli antichi idoli, diventerò dʼoro come quelli un tempo; mʼubriacherò di nardo, incenso e mirra, di genuflessioni, di carni e di vini, per sapere se posso usurpare, tra le risa, gli omaggi divini dʼun cuore che mʼammira!
E quando mʼannoierò dellʼempia farsa, poserò la mano esile e forte su di lui; le mie unghie, come unghie delle arpie, sapranno aprirsi un varco nel suo cuore! Come un tremulo uccellino palpitante, gli strapperò dal petto il cuore rosso e, per saziare la mia bestia favorita, lo getterò per terra con disprezzo!”.
Sereno il poeta alza le braccia al Cielo, dove il suo occhio vede un trono splendido e i vasti lampi del suo spirito lucido gli celano la vista di popoli furiosi: “Benedetto Dio, che doni sofferenza come divino rimedio alle nostra impurità e come migliore e più pura essenza per disporre i forti alle sante voluttà!
Lo so che al poeta tu conservi un posto tra le schiere beate delle legioni sante, e che lʼinviti a quella festa eterna di Troni, Virtù e Dominazioni. Lo so che il dolore è la sola nobiltà che mai terra o inferno morderanno, e che occorrono tutti i tempi e gli universi per intrecciare la mia mistica corona.
Ma non basterebbero le perdute gioie dellʼantica Palmira, i metalli ignoti, le perle del mare della tua mano incastonati per quel bel diadema chiaro e sfolgorante; perché sarà fatto di sola luce pura, attinta al fuoco santo dei raggi primitivi e al confronto occhi mortali di massimo splendore non sono altro che piangenti e oscuri specchi!”.
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