In fuga da Kiev

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In fuga da Kiev

Eugenio non parla italiano. I suoi piccoli occhi chiari ci guardano senza comprendere. Ci fissa mentre a gesti cerchiamo di farci capire.

“Cia-o? Com-e sta-i?” gli chiediamo, scandendo le parole in sillabe improbabili, con il viso a due palmi dal suo. Lui ci guarda in silenzio, per niente interessato ai nostri mal riusciti tentativi di comunicare. Io e la mia collega ci scambiamo occhiate, avvilite e sconfortate.

 “Whats your name?” Tenta Barbara in un inglese maccheronico. Eugenio non la segue, si guarda intorno. Osserva i compagni seduti composti nei loro grembiuli blu. Osserva i disegni alle pareti, i cartelloni delle stagioni, l’alfabeto in alto sopra la lavagna, le bandierine penzolanti dal soffitto. Lo lasciamo fare.

 “Maestra perché non parla? Chiede Pietro, incuriosito.

“Eugenio parla un’altra lingua. Viene da un paese lontano” Gli dico .

 “Io e la maestra Barbara, vi abbiamo parlato i giorni scorsi di un nuovo compagno che sarebbe arrivato. Ricordate?” Un sii corale si alza dalla classe.

“Lui è Eugenio” La mia collega prende per mano il bambino e lo porta davanti alla cattedra “Viene dall’Ucraina”

“Il paese dove c’è la guerra” aggiunge pronta Mia. Pietro scatta sull’attenenti.

 “Io sono Pietro” Vuole essere il primo a dare il benvenuto al nuovo compagno. E da giorni che lo aspetta, tempestandoci di domande. Ed ora che finalmente è arrivato non vuole che qualcuno gli sottragga il suo momento. Si alza in piedi e gli tende la manina. Eugenio la stringe nella sua. Pietro indugia, ci guarda e senza pensarci lo stringe in uno dei suoi forti abbracci. Dopo di lui Andrea, Mia, Giuseppe, Luigi, Cristian e uno alla volta tutti e sedici bambini si fanno avanti. Un applauso spontaneo accoglie Eugenio. Lui non parla, non reagisce, resta fermo al centro del cerchio che i bambini hanno fatto attorno a lui.

“Ora lasciamo ad Eugenio il tempo di ambientarsi” dico ai bambini mentre li invito a sedersi. Accompagno Eugenio al suo banco. Accanto a Pietro. Spieghiamo che il vero nome di Eugenio è Yevhennii. Lo scriviamo alla lavagna e proviamo a pronunciarlo con l’aiuto del traduttore di Google. Il suo è un nome difficile da pronunciare e così alla casa famiglia lo chiamano tutti Eugenio. Sappiamo che viene da Kiev ed è arrivato in Italia con sua madre, con una piccola valigia e null’altro. Una mattina all’alba hanno raggiunto la stazione degli autobus e dopo ore di attesa, insieme migliaia di persone sono riusciti a lasciare Kiev. Hanno viaggiato due giorni attraverso la Polonia e l’Austria per raggiungere Roma, dove hanno trovato alloggio in una struttura di prima accoglienza. Olena e suo figlio sono arrivati soli. Nessuno li attende in Italia. Non hanno contatti ne amici a cui rivolgersi. Insieme ad altre decine di connazionali vengono trasferiti dopo pochi mesi in una Casa famiglia a Civitavecchia. Olena prende le sue poche cose che ha con se e si traferisce con il figlio alla struttura a nord di Roma. La Casa che li ospita dà sul mare. Eugenio non ha mai visto il mare.

“ Guarda amore quello è il mare” gli indica sua madre mentre il treno fiancheggia la costa laziale. Eugenio guarda fuori, senza mai distogliere lo sguardo da tutta quell’acqua. Il mare azzurro è tutto un luccichio  sotto i raggi del sole ancora alto.

“ Ti piace” insiste sua madre  avvicinando  il viso a quello del figlio. Eugenio fa cenno di sì con la testa.

 “Ti piacerebbe andare a mare?” Eugenio non risponde il bambino. Con lo sguardo segue l’ultimo tratto di costa prima di arrivare nella stazione. La madre gli accarezza la testa. Il silenzio ormai è una costante di suo figlio. Da quella maledetta notte in cui  una bomba ha raso al suolo la palazzina  accanto alla loro e sventrato quella in cui Eugenio dormiva accanto a sua madre, non ha più parlato. Olena spera che in Italia possano aiutare il suo bambino. E’ anche per questo che ha deciso di lasciare la sua città. Ma nel suo cuore sa che ormai nulla più la lega a Kiev. Nella Casa Famiglia li accolgono con calore e gli viene data una stanza tutta per loro, con un brande letto che da proprio sul mare. “ Visto Eugenio ?” puoi guardare il mare tutte le volte che vuoi.

Nella Casa  ci sono altri bambini dell’età di Eugenio, e tanti adolescenti. Alcuni sono stati tolti alle famiglie, e altri sono orfani. Olena  chiede da subito che suo figlio frequenti la scuola. Vuole che suo figlio imparo l’italiano e che si senta a suo agio. Eugenio non accetta di buon grado la decisione di sua madre. Non vuole staccarsi da lei. Ha paura di perderla, come ha perso la sua babusya, che una mattina non è più tornata dal mercato. Un proiettile l’ha lasciata sull’asfalto con la busta della spesa stretta in mano.

“E normale” spiega la psicologa a sua madre, mentre un interprete fa da tramite

“ Dopo quello che ha vissuto la paura del distacco è più che comprensibile” La donna annuisce “ Anche il silenzio è una conseguenza dei trauma che ha subito” “ Ci vorrà tempo per recuperare”

 Ma Olena sa che quel figlio deve dimenticare se vuole riprendere a vivere. Ogni mattina lo accompagna a scuola, insieme all’operatore della Casa e lo aspetta seduta sulla panchina sotto l’albero davanti all’entrata fino a che non esce. Ha fatto una promessa al suo bambino. Eugenio non può vederla, ma sa che sua madre è la fuori e che non lo abbandonerà. Non lo ha mai fatto nemmeno quando suo padre se l’è portato via con la forza e ha minacciato di ucciderla. Lei è andata a riprenderselo e quando ha capito che prima o poi ci sarebbe rimasta sotto le botte di quell’uomo è scappata lontano insieme al suo bambino.  Ha cercato di dare una nuova vita a suo figlio lontano dal villaggio e da suo padre. Le notti all’addiaccio, quando lui li lasciava  fuori casa per punirli di colpe che non avevano e le botte e gli insulti, Eugenio li sente ancora addosso. A Kiev si sentivano al sicuro, fino a che le bombe hanno distrutto ogni certezza. Hanno cancellato tutto ciò che si erano costruiti. Il lavoro, la casa, la scuola e i compagni . La guerra non era più solo al confine, i cannoni echeggiavano sempre più vicini. I mortai lasciavano morti dappertutto e per le strade carri armati sfilavano uno dietro l’altro. Hanno vissuto per mesi tra la casa e il rifugio nelle cantine, con la paura di morire. Nelle notti buie stretta al suo bambino, Olena  piangeva in silenzio.

 “ Perdonami per non essere riuscita a darti una vita migliore” sussurra mentre il piccolo le dorme accanto.

Sa che suo figlio si porta addosso un fardello troppo pesante per le sue piccole spalle. Le cicatrici della sua anima sono troppo profonde da risanare. Ma ora lontano da quella terra che le ha dato tanto dolore, spera Olena che suo figlio possa farcela.

Passano i giorni, ma Eugenio non si apre alla nuova vita. Sempre silenzioso, resta seduto al suo posto a guardare dalla finestra.

A nulla servono gli inviti dei bambini, la musica e i giochi all’aperto. Eugenio è chiuso in un mondo dove non riusciamo ad entrare. 
“Come possiamo aiutarlo?” E la prima cosa che chiediamo all’ educatrice che si occupa di lui alla Casa Famiglia. 
“Con tanto amore” ci risponde 
“Purtroppo Eugenio, non ha dovuto subire solo l’orrore della guerra, ma anche quello ancora più intimo delle violenze di suo padre” ascoltiamo senza fare domande, mentre ci racconta da cosa e da chi è dovuto scappare per sopravvivere.   
“E come se non bastasse le bombe hanno fatto il resto. Per poco non è morto sotto le macerie”
Siamo rimaste senza parole. Non ce ne sono 
“Ci vorrà tempo prima che ricominci a fidarsi” Ha aggiunto la donna prima di salutarci. 
Ci sentiamo impotenti, inadeguate ad affrontare tanto dolore. Non siamo preparate. La tv ci rimanda immagini di morte e devastazione e noi al sicuro nella nostre case confortevoli, seduti sulle nostre comode poltrone, guardiamo la guerra come si guarda un film e se le immagini diventano troppo crude, con naturalezza cambiamo canale per non turbare la nostra serenità.
Intanto i giorni passano e nonostante il nostro impegno non riusciamo a stabilire con lui un contatto. Eugenio rifiuta ogni approccio da parte nostra. A nulla servono le tante iniziative per coinvolgerlo.
“Il problema è anche la mancanza di comunicazione” ci diciamo a fine giornata. 
“Non ci comprende e questo lo isola ancora di più” Avremmo bisogno di un interprete, ma non è previsto. 
Il fatto è che Eugenio non ha nessun interesse a parlare la nostra lingua. Il suo silenzio è assordante tra quei bambini così chiassosi. La nostra lingua, il nostro cibo la nostra scuola, il nostro mondo gli sono indifferenti. Non riesce a sentirsi al sicuro. Non riesco a darmi pace. Faccio ricerche su internet, mi documento. Cerco di saperne di più su questa guerra e sui tanti profughi che stanno attraversando i confini. Mi imbatto in tante storie di bambini che nemmeno immaginavo e più mi avvicino a quelle vicende più cresce in me il desiderio di aiutare Eugenio.
“ Barbara, se cercassimo di avvicinarci noi al suo mondo ? Invece di pretendere il contrario da Eugenio?” chiedo una mattina alla mia collega. Lei mi guarda incuriosita. Mi lascia fare.
“Bambini c’è una novità” annuncio solenne “Per aiutare il nostro amico Eugenio, cercheremo di imparare la sua lingua e di conoscere meglio il paese da dove viene. Che ne dite?”  Naturalmente sono tutti entusiasti. 
Vogliono tutti bene a qual bambino tanto silenzioso. Cosi diamo il via alla nuova avventura. Scriviamo sulla lavagna paroline ucraine. Eugenio ci guarda interessato. Sbagliamo volutamente qualche parole per catturare il suo interesse.
Eugenio si alza, allunga la mano per prendere il gessetto dalla mia mano. E corregge. Lo guardo e lo invito a scrivere.
“Scrivi altre parole Eugenio” gli faccio segno con le dita sulla lavagna. Lui scrive. Ne scrive tante, e tutti insieme le ripetiamo. Lui finalmente abbozza un sorriso. Ogni giorno nuove paroline ucraine si aggiungono e quelle in italiano. Ma la scrittura da sola non basta. Chiediamo a sua madre qualche ricetta tipica. Tra le tante scegliamo quella dei sochnik ; dolcetti a mezza luna ripieni di ricotta. E cosi indossati i grembiuli e i cappelli da chef ci rechiamo alla cucina della scuola. Insieme pesiamo, impastiamo, inforniamo. Eugenio resta in disparte. Ci osserva, ma poi non resiste all’euforia dei bambini. Decidiamo di coinvolgere anche le altre mamme. Vogliamo mostrare ai bambini i vestiti tipici del paese di Eugenio.  Accettano subito. Ognuna di loro realizza un vestito o un copricapo o un accessorio tipico da far indossare ai propri figli mentre altre fanno lo stesso con abiti della tradizione italiana. Nell’ora di religione, la maestra Margherita spiega le differenze tra la religione cattolica e quella ortodossa. Insomma ci immergiamo in quella cultura lontana che mai come ora sentiamo tanto vicina. Eugenio partecipa, pronuncia le sue prime parole in un italiano stentato. Si lascia coinvolgere dai compagni. Siamo sulla buona strada. A guadarlo ora, il cuore ci si riempi di gioia.  
 All’uscita di scuola un pomeriggio la madre mi ferma
“Maestra. Posso parlare lei? “Mi chiede cercando di farsi capire “Certo le dico” Mentre le tendo al mano. 
Lei la tiene stratta tra le sue.
Inizia a piangere “Anna, cosa succede?” le chiedo allarmata
 “Cosa bella maestra” aggiunge asciugandosi gli occhi con il dorso di una mano. Sorride, i suoi occhi si illuminano
“Volevo dire grazie per mio figlio” dice commossa 
“Lui ora sorride e dice. Mamma tu non stare più fuori scuola. Tu vai e poi venire a prendere. Io sto bene con nuovi compagni e maestre” 
“Grazie per tutto” mi ripete 
 Questa donna alta dal portamento fiero, con gli occhi azzurri e tristi come il suo bambino che ha attraversato l’inferno, è qui davanti a me e mi ringrazia con tutta la gratitudine di cui solo una madre è capace. La guardo dritta negli occhi. Vorrei dirle che siamo noi a ringraziare lei, per averci strappati all’apatia con cuoi guardiamo il mondo fuori da casa nostra. Vorrei dirle che ora questa ora è la sua casa, che Eugenio potrà crescere con i nuovi compagni, sentirsi al sicuro e non avere più paura.  Ma mentirei. Eugenio e sua madre saranno trasferiti in un'altra struttura, in un'altra regione. Dovranno ricominciare tutto daccapo. Non ci sono più fondi  per  Olena e  suo figlio. Ancora una volta dovranno riprendere le loro cose e andare via.
 
  Civitavecchia 30 marzo 2023