La Valigia

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Lui è immaturo, scostante, sconnesso, un albero spogliato di sè stesso. Un’ombra di solitudine gli macchia il volto, come una voglia invisibile, un sentimento lontano. E’ immaturo proprio come tutti gli uomini, cerca sua madre in ogni donna che trova, un affetto che gli risulti familiare, riconosciuto. Cerca la protezione amniotica che, incosciamente, ognuno di noi si porta dietro dal limbo materno.

Lei è più grande, ha l’anima proiettata in avanti, gli occhi le traboccano di un futuro luminoso, il suo viso è un dolore senza faccia, che lei sa tenere a bada. Quel dolore è il suo animale domestico, l’ha addestrato con dedizione. E’ una ragazza tenace, forte nelle sue debolezze istintive, quelle su cui si lavora tutta la vita senza che queste ci lascino mai realmente.

I due non si vedono da un anno, sono stanchi, abbattuti da una vita dannata, senza speranze. Le loro, di speranze, le hanno seppellite ognuno nel cuore dell’altro.

Sono seduti ad un tavolo all’aperto, il sole luccica sulle punte sfibrate dei capelli di lei, sulla fronte imperlata di sudore di lui. Si fissano, contemplandosi l’anima stremata, ma non sono in imbarazzo. Piuttosto, si sentono sfibrati, non capiscono perchè si trovano li.

<<Perchè siamo qui?>> chiede lei, la voce ridotta a un sussurro, le braccia conserte, la spallina del vestito che le ricade continuamente. Sta pensando che è tutto sbagliato, che l’estate non è fatta per le persone bestiali come lei. Che quel sole è sincero, e lei no. Che quei tavolini da bar, sono traballanti come i suoi pensieri, sul ripiano di metallo si specchiano le sue incertezze. Non sa cosa dire, non sa nemmeno perchè è venuta.

<<Pensavo che avremmo potuto parlare.. E’ passato un anno..>> risponde lui. Si passa una mano sui capelli impiastrati di gel, le dita gialle di nicotina, le rughe intorno ai piccoli occhi verdi, leggermente screziati, occhi malandati e vagabondi, nomadi come lo sguardo che lei gli rivolge, non si ferma mai in un punto, è sempre in movimento. Quegli occhi cercano qualcosa, una vita, un passaggio, una foglia trasportata dal vento, qualsiasi cosa che le ricordi che è ancora viva. Una mano bianca e infinita che le porga il suo destino a lettere chiare, stampate sulla membrana del cuore, quel cuore che lei non sente più di avere.

Lei rimane in silenzio, è chiaramente a disagio, non vede l’ora di andarsene. Le fa male un dente, continua a passarci sopra la lingua ingrigita di preoccupazioni, scava su quel nervo scoperto cercando di arrivare al nucleo di sè stessa. Si morde la lingua, perchè non ci riesce.

<<Di cosa dovremmo parlare? Ci siamo già detti tutto>> replica lei, inondata di una tristezza inaspettata, che quasi la sorprende.

<<Di tutto quanto.. della valigia>> le risponde lui, il tono velato di supplica, si contorce sulla sedia di plastica come un verme sull’asfalto, seccato dal sole del mattino. Anche lui adesso capisce che è stato un errore chiederle di rivedersi, sono due estranei seduti l’uno di fronte all’altra, parlano lingue sconosciute, le loro parole si scontrano solitarie, collimano violente. Le loro parole planano su quel tavolo di metallo, macchiato e deprimente, e rimangono lì sospese, in balià del vento intorno a loro.

Lei ha un piccolo sussulto interiore, aveva dimenticato quella stupida valigia. Non ci vuole pensare, vuole alzarsi, scappare lontano dal disgusto che sente, saltare sul primo taxi e dimenticarsi di lui, fingere che quell’incontro non sia mai avvenuto.

Si è rotta un tacco mentre camminava in direzione del bar, ha imprecato a bassa voce, si è tolta la scarpa per esaminare il danno. E’ arrivata al bar zoppicando, la bocca lucida di rossetto, l’aria contrita, gli occhi spalancati. Una pazza, malata di amore malato.

<<Quale valigia?>> dice lei. Ha deciso di utilizzare quella tattica, fingere di non ricordare più niente. Vuole deluderlo, amareggiarlo in maniera che lui si dimentichi di lei, la lasci libera di muoversi nel mondo senza il fantasma di quella storia spezzata da una fine dolorosa, quanto necessaria.

Lui spalanca la bocca, ma non le crede. E’ impossibile che non si ricordi. In quella valigia hanno messo i loro bambini mai nati, le loro attrazioni represse, il loro sesso mai consumato, tutto lo squallore di una relazione sbagliata sin dal principio.

Quella valigia gliel’aveva regalata lui, farneticando di viaggi intorno al mondo e vite da condividere senza ostacoli, il dolore non era contemplato. Lui tira fuori una polaroid dalla tasca della camicia, la mette sul tavolo di fronte a lei. La valigia è lì, impressa sulla carta lucida, indelebile come un tatuaggio, come un amore, come l’impronta di una mano nel cemento. Indelebile come un figlio, quello che non hanno potuto avere.

Lei è sterile, lui è irresponsabile. I suoi coglioni funzionano, tutto il resto no.

Lei prende in mano distrattamente la polaroid, la guarda solo per pochi secondi. Sta pensando che con il tempo, ha finito per somigliare a quella valigia. Malandata, vuota, inutilizzata.

<<Devo andare>> dice lei, alzandosi improvvisamente dal tavolo.

Il cameriere è arrivato con i due caffè, che lui ha ordinato per entrambi senza consultarla. Sa benissimo che lei odia il caffè. Che lei odia lui.

Non cerca di trattenerla, pensa che in fondo è giusto così. La guarda incamminarsi, svelta, zoppicando sul marciapiede crepato con il suo tacco rotto. La guarda da dietro, sembra una puttana da due soldi, con quella spallina del vestito che le ricade continuamente, con quell’espressione congelata sul volto, le gambe troppo scoperte.

Lui si fissa le mani, mani complicate, mani colme di desiderio spezzato. E’ arrabbiato con sè stesso, un anno è passato, ma lui è paralizzato dentro il suo corpo molle, è una larva in attesa di uscire, è un intrico di sangue e carne che pulsa sotto la pelle bagnata di rimpianto, il rimpianto di essere stato disattento, di non aver saputo ascoltare quando tutto intorno a lui gli gridava di farlo.

Beve in fretta il suo caffè, imbevibile, lascia i soldi sul tavolo e se ne va.

Non pensa di seguirla, vuole trascurarsi fino a consumare l’essenza di sè stesso.

Si incammina verso il viale alberato, la luce filtra timida dai rami nodosi, lui piange, ride, si batte una mano sulla fronte, muore un pò dentro. Svolta l’angolo e dimentica tutto.