L’ultimo incontro. Tempo e luogo dell’avvenimento – dal 1948 in poi in queste regioni balcaniche, forse anche oltre.

Era tardo pomeriggio, quasi poco prima del crepuscolo, quando suonò alla porta di un piccolo appartamento al settimo piano di un palazzo che si trovava in una via solitaria, in una delle periferie cittadine. Sul tavolo era stato preparato un pranzo per due. Le candele accese attorno a loro effondevano un dolciastro profumo di rose secche che, per ragioni oscure, risultava piacevole a entrambi. Già le ombre giocavano un poco sulle pareti creando quella misteriosità a cui sa dar vita il fumo delle candele.
Non si era neppure lavato le mani, e si era già seduto al tavolo, insolitamente taciturno e pensieroso. Guardava dritto davanti a sé, da qualche parte nel vuoto, attraverso lei, attraverso il muro.

Come se nella sua testa stesse meditando qualcosa che lei non avrebbe neppure potuto intendere in quel momento.

Improvvisamente balzò in piedi, si drizzò e, come ipnotizzato, si mise davanti al tavolo fissando ancora qualcosa di invisibile, che forse si cevala dietro gli oggetti, le cose, le pareti.

“Che c’è?”, chiese lei con voce regolare, solo per un attimo tremolante.
Presentiva che sarebbe accaduto qualcosa, ma non poteva indovinare che cosa sarebbe potuto succedere esattamente.
“Siediti adesso, ti prego, ti ho preparato il tuo piatto preferito, e sono pure riuscita a procurarmi il vino che ti piace di più, non te ne sei accorto?”
Rimase muto come un pesce. Cambiarono soltanto le smorfie sul suo volto, aggrottò le sopracciglia e spalancò gli occhi fissando ancora di più attraverso lei, attraverso le pareti, verso qualcosa di ignoto.

Lei stava cercando un espediente per farlo almeno parlare, perché la aiutasse a comprendere il momento, la tensione, la sua assenza.

Per alcuni secondi che le parvero un’eternità, egli continuò a rimanere così e a guardarsi attorno, lasciandosi solo a tratti sfuggire delle smorfie accompagnate da un tremolìo delle labbra, come se fosse sul punto di dire qualcosa. Attendeva rimanendo seduta, poiché pensava che, se si fosse alzata, le gambe le sarebbero venute meno, sarebbe caduta di nuovo e non avrebbe avuto la forza di reggersi in piedi.
Finalmente lui, mutando quell’espressione del volto che era stata la maschera della più perfetta tranquillità, pronunciò con la sua voce vellutatamente profonda:

“Mia cara, tra un minuto arriverà la polizia. Verranno ad arrestarci. Me e te. Non agitarti troppo, ti prego…”

Non le permise di fargli alcuna domanda perché non lo interrompesse. Proseguì con la stessa voce pacata:
“… la polizia pensa che siamo delle spie, che lavoriamo per qualche autorità o servizio segreto straniero. Tu sai bene che non è così, vero? Permetteremo loro di entrare, di perquisire tutto (qualora si mettessero a fare delle indagini), e anche di arrestarci se sono sicuri che sia necessario farlo. Noi non opporremo alcuna resistenza per non complicare ulteriormente le cose. Quando se saranno convinti che non ci sarà alcuna prova, che non avranno nulla da rimproverarci, che non ci saranno indizi per nessun tipo di accusa, ci lasceranno in pace. Ci lasceranno liberi in un batter d’occhio, credimi. Ti chiedo solo di non agitarti, ti prego.

È chiaro che dopo questo fatto non potremo più vederci, né qui né in qualunque altro luogo.

Dovremo dimenticarci che abbiamo vissuto l’uno per l’altro in questo luogo, che abbiamo avuto la nostra vita qui, in questo piccolo appartamento. Poi agirai come ritieni sia più corretto…”
Non riuscì a finire la frase. Suonò il campanello, riecheggiando a lungo nella stanza, specialmente nella testa di lei. Come scampana una chiesa che invita i fedeli alla preghiera, ma non riesce a raccoglierli, poiché non è tempo di preghiera.
Aprì la porta:
“Scusate”, disse, ma la voce gli si bloccò dato che, in quel preciso istante, nell’appartamento si raccolse un gruppo di persone armate per bene che indossavano delle strane uniformi scure, dando l’impressione di essere uno stormo di corvi che piombano in un letamaio in cerca di cibo.

Poiché l’appartamento non era più grande di quattordici metri quadrati, condussero in breve tempo la perquisizione. Non c’erano molti mobili o luoghi nascosti in cui si fosse potuto celare qualcosa di strano.

“Vi prego”, mormorò lei a malapena a un certo punto, “che cosa state cercando qui? Non ci avete neppure mostrato un mandato di perquisizione e avete messo a soqquadro l’intero appartamento. Vi prego, datemi almeno una spiegazione per un tale modo di procedere, a che cosa vi…”
Non riuscì a concludere la frase poiché, così come erano entrati, non avendo trovato assolutamente nulla di strano in quel nido d’amore, che era la vera finalità di quel piccolo appartamento, allo stesso modo uscirono in silenzio lasciando quale unico commento “qui non c’è nulla, andiamo…”

Sparirono oltrepassata la porta, come delle ombre nere, come uno stormo di corvi neri che abbandona la terra dopo averla perlustrata senza successo.

Chiuse la porta guardandola silenziosamente per brevissimo tempo, con quella stessa maschera sul volto che non rivelava alcuno stato d’animo o sentimento.
“Mia cara, io adesso devo dirti addio per sempre. Non ti è forse chiaro? Non chiedermi niente. Lasciami semplicemente andare, senza parole e commenti, senza scenate o drammi inutili. Non feriamoci inutilmente. Non cercarmi mai più da nessuna parte e in qualunque caso, e non fare il mio nome a nessuno. È la cosa migliore per te, capisci?”
Avrebbe potuto forse dire qualcosa!? Totalmente disarmata, senza fare il minimo movimento, seguì con gli occhi la sua partenza. Egli aprì la porta, sgattaiolò fuori silenziosamente dall’appartamento, senza dire addio, senza sospirare, senza quel dolore che le lasciò nel petto a causa del non-detto, del non-spiegato. Allo stesso modo silenziosamente la richiuse e sparì.

Non seppe neppure come riuscì a trascinarsi fino alla finestra; rimase in piedi dietro alla tenda a seguire per l’ultima volta la sagoma dell’essere che negli ultimi anni era stato per lei la cosa più cara e preziosa.

Attraverso la spessa cortina di lacrime che non riusciva a trattenere, notò, nell’angolo del vicolo che tagliava la strada in cui sorgeva il suo palazzo, lo stormo di corvi neri in piedi, in attesa di qualcosa: di lui, naturalmente! Mentre usciva dall’edificio e si dirigeva verso di loro, le parve di sentire la sua voce gridare:
“Ci siamo sbarazzati anche di lei, così rapidamente e in maniera indolore. Eh ragazzi, che dite!! Forza ragazzi, forza, le nostre donne e i nostri bambini ci stanno aspettando a casa!!!”

Skopje, 1999

(Traduzione dal serbo all’italiano realizzata di Stefano Viganò)