Sono un epigono dell’amarezza, sono un epigono dell’esser grezza, sono un epigono per me stessa.

Dio mio. Quanto vorrei! Poter essere ossimoro, che lotta, sbaglia, si incupisce contro sé stessa. Quanto vorrei! Sono un epigono dell’esser scintilla, che brilla, sfavilla, acceca le genti, per errore, disonore e inizia il tremore! Ho timore di loro, per mantenere il mio ardore me ne distanzio e inizio a pensare.

Sono un epigono di chissà chi, sorto da cosa?

Dove? Forse nell’antica Grecia. Tebe ricorda il mio nome ed io piango il cognome, che impresso in me e sul mio documento mi fa provar sgomento.

Ho paura dell’essere solo una scintilla, frutto di mancanza, né qualità né virtù, ora forse in condoglianza. Odio. Epigono in polvere. Epigono del tuo essere fenice, del tuo essere fuoco, di paglia, si intende.

Promotrice della stirpe, sia chiaro, non in tuo onore, tu cavaliere non sei stato mai. Riponevi la spada non nel suo fodero, ma nel braccio l’accompagnavi, per non abbandonarla. Non avevi ignavi, mio Dio, epigono maledetto di un cavaliere mancato. Io non mi sento greca. Non voglio essere figlia di un capo che combatté contro Tebe. Mio Dio. Sono un epigono nell’esser me stessa. Cavaliere. Pensatore di ieri, artista di ieri, pensatore. Ho troppo sangue che fluisce tra capo e collo ed è rosso contro ogni mia aspettativa. Ed è subito invettiva.