2016 – ORE 7 a.m – Guardarmi allo specchio è il momento più difficile della giornata, quella che vedo, ormai, ha ben poco di ciò che ero. Ma non c’è tempo per pensare e meno ancora per ricordare. Istintivamente tasto il mio polso sinistro: tranquilla, il microchip è ancora al suo posto.

ORE 7.30 a.m – Vorrei solo un buon caffè, di quelli che non si possono più fare, la legge lo proibisce. Ingurgito automaticamente la solita merendina che ogni giorno ci distribuiscono, dicono che sia ricca di vitamine. Mentre mando giù un sorso di surrogato ripenso al pane che ogni giorno infornavo: profumava di vita, scuro e croccante. E’ ora di uscire.

ORE 8 a.m – L’autobus è pieno, come al solito, di gente assonnata, lo sguardo assente, spento. Mi aggrappo al mancorrente. Sono come loro, come tutti, tutti uguali. Guardandomi intorno non riesco più a distinguere lo studente dall’operaio, l’impiegato dalla casalinga: lo stesso tipo di abbigliamento, con l’aria vagamente stinta, quasi grigiastra, informe e ognuno con quel numero sulla manica, che indica quale reparto, quale aula, quale casa è quella assegnata.

ORE 9 a.m – Al lavoro, mi infilo nel mio box, indosso le cuffie e si avvia il collegamento mentale con i capi. A testa china sul computer inizio la mia giornata di lavoro. Ricordo che una volta usare il pc era gradevole, ricordo i post, le fotografie, gli amici di Facebook, i giochi, le informazioni e i film. Ora è tutto criptato, proibito usare il computer al di fuori del luogo di lavoro, per chi ci prova sono sanzioni severe.

ORE 16.30 – Avverto una strana agitazione, il collegamento mentale è stato più volte interrotto, durante la giornata e questo non era mai successo. Ho sentito addirittura dei mormorii provenire dagli altro box: è proibito parlare durante l’orario di lavoro e non so spiegarmi cosa stia accadendo. Mentre eravamo in mensa aspettando che ci distribuissero la solita pasta artificiale e la solita verdura Monsanto, ho notato che qualcosa non andava, la distribuzione ritardava e dal box cucina ogni tanto si sentiva parlare qualcuno dei cuochi. Una volta sono riuscita a cogliere qualche parola, mi pare “palazzo” e poi “esplosioni”.

ORE 17.30 – Sono uscita già da mezz’ora e l’autobus ancora non arriva, anche questa è una cosa inspiegabile, gli autisti sono obbligati, programmati per seguire obbligatoriamente degli orari precisi, devono essere alle fermate nell’esatto momento in cui i lavoratori escono. Ma è tutto molto strano: il tempo è cambiato, si sono uditi dei tuoni e dopo anni ho visto di nuovo dei lampi nel cielo, la gente intorno a me ha cominciato ad agitarsi, come un gregge disorientato dalla mancanza del pastore. Vicino a me c’è un ragazzo, avrà trent’anni ma sembra un vecchietto con la faccia da ragazzino, gli chiedo cosa succede e lui: ci sono state delle esplosioni, pare che siano morte delle persone. Come morte? -. faccio io -Non è possibile! Quando succede che qualcuno muoia nessuno è autorizzato a farlo sapere, nemmeno i parenti possono vedere il loro caro estinto.

Tu come l’hai saputo?

Pare che qualcuno abbia visto dei cadaveri in strada – mi dice – si sono uditi dei colpi, come di armi e c’è un corteo enorme di gente in marcia verso il Palazzo. Io sto andando là.
Sento che sto impallidendo e subito dopo sento affluirmi il sangue al viso. Sta accadendo davvero? Seguo il ragazzo. Dopo alcuni metri eccolo, il corteo. E’ incredibile, sono migliaia, no, forse milioni. Da dove sono arrivata vedo anche chi è in testa: persone come me e come il ragazzo, ma armate di fucili e bazooka, armi che avevo visto solo in qualche libro di storia e che non credevo esistessero più.

2030 – ORE 7 a.m – Mi guardo allo specchio e mi sistemo i riccioli biondi sulla fronte. Preparo la colazione col pane che ho sfornato ieri sera e la marmellata che mi ha regalato un amico contadino. Ora i contadini possono coltivare la terra tornata di loro proprietà, la Monsanto è stata messa al bando e le sementi sono state liberate.
Un velo di rossetto e un po’ di mascara.

Prendo la mia macchina. Oggi niente lavoro, è Festa Nazionale, ho deciso di fare una gita al mare. Il cielo è limpido, il sole illumina l’acqua trasparente e ci sono dei bambini che giocano sulla sabbia. Ovunque famiglie che improvvisano barbecue e tutti che salutano tutti, le donne hanno abiti pieni di colori e gli uomini indossano jeans o bermuda e maglie con maniche corte. La brezza scioglie i capelli delle donne e accarezza la fronte. Respiro la salsedine, mentre Ron, il ragazzo che ha vissuto con me l’avventura più bella della nostra vita, stende un plaid sulla sabbia. Lo guardo e mi sembra quasi impossibile che dopo tanti anni abbia ancora quella faccia da ragazzino e che la sua capacità di entusiasmarsi come la mia, non siano cambiate da quel giorno. Il giorno in cui ritrovammo qualcosa che tutti avevamo dimenticato.

Il giorno in cui tornammo liberi.