L’amore

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In questo tempo sospeso, dilatato, ma che pure risulta starci stretto per i limiti imposti dal Coronavirus, mi sono trovato a fare quanto non avessi mai fatto e anche a intensificare quanto prima già facessi, come lo studio, la lettura e la scrittura, che amo tanto.

L’argomento che ho scelto per il mio modesto contributo – perlomeno così spero si riveli – è l’amore, quello di Paolo e Francesca, presenti nel canto V dell’Inferno.

Per non buttarmi a capofitto mi sono concesso delle divagazioni con il chiaro intento di attutirne l’impatto e sono andato a ripescare tra i miei libri. Nell’angolo della poesia ho ritrovato La gnosi delle fanfole” di Fosco Maraini, autore dei primi del Novecento, etnologo, alpinista, orientalista, fotografo e non da ultimo: padre della scrittrice contemporanea Dacia Marani, classe 1936. 

Ho sorriso, dopo aver fatto spolvero tra i titoli di poesie metasemantiche mai invecchiate, e mi sono soffermato su Il giorno a Urlapicchio, che recita come segue:

 

Ci son dei giorni smègi e lombidiosi
col cielo dagro e un fònzero gongruto
ci son meriggi gnàlidi e budriosi
che plògidan sul mondo infrangelluto,

ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi
un giorno tutto gnacchi e timparlini,
le nuvole buzzìllano, i bernecchi
ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;

è un giorno per le vànvere, un festicchio
un giorno carmidioso e prodigiero,
è un giorno a cantilegi, ad urlapicchio
in cui m’hai detto “t’amo, per davvero”.

 

Nelle invenzioni lessicali di Fosco Maraini permane un turbine di parole, una resistenza semantica che trova risoluzione nella voce onomatopeica di una lingua surreale, tuttavia – in un componimento come questo appena letto, dove per l’appunto è solo grazie al suono che si riesce a codificarne il significato ­– Maraini chiude con un pensiero che è dichiarazione d’amore. La maestria del funambolo è dismessa, l’illusionismo del paroliere si ferma di fronte alla grandiosità di un sentimento che trionfa su tutto, senza alcun artificio. In quel t’amo per davvero si evince come la purezza del sentimento si imponga al disordine apparente dei pensieri costruito dall’autore fiorentino: l’amore brilla su tutte le altre parole, quasi fosse una cometa. 

Il mio intento è rimasto immutato, quindi mi accingo a passare da un toscano all’altro per raccontare l’amore di Paolo e Francesca, i due cognati uccisi dal marito di lei, che Dante mette tra i lussuriosi. Questa è stata la prima volta, in tanti anni di insegnamento, nella quale mi sia trovato a spiegare il canto in una classe terza con la modalità DAD, un acronimo che di sicuro ritroveremo tra le parole aggiornate del nostro vocabolario il cui significato allude alla didattica a distanza. Mi sono ricordato di quando avessi chiesto ai miei alunni se sapessero o riuscissero a immaginare chi potevano essere i lussuriosi di cui parla Dante. Qualcuno pensa ancora si tratti di persone dedite al lusso. 

No, in realtà il sommo poeta si riferisce a ben altri soggetti. Nel mistero della parola apocopata i lussuriosi sono quelli che lasciarono prevalere i piaceri della carne, l’istinto alla ragione. 

Questa sorpresa era stata anticipata già nel canto primo dell’Inferno, là dove Dante presenta tre fiere che hanno valore allegorico. Tra esse l’animale che lo induce a indietreggiare è proprio la lupa, creatura peccaminosa e ingorda che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza. Essa porta con sé i vizi del mondo e, come racconterà molto più tardi Giovanni Verga, la lupa è una prostituta, proprio come lo era Acca Larentia, moglie del pastore Faustolo e nutrice dei gemelli Romolo e Remo.

È la sera dell’8 aprile, il sommo poeta è uscito dal limbo e sta per entrare nel secondo cerchio, meno ampio del precedente ma dove la sofferenza accresce.

Il canto quinto è universalmente riconosciuto più che per la numerazione romana, per le anime che lo affollano, è diventato così il canto di Paolo e Francesca. Eppure non vi sono al suo interno solo questi due personaggi: sono diverse le anime che riempiono il girone dei lussuriosi. 

Il primo a entrare in scena è Minosse, figlio di Zeus ed Europa, fu re di Creta. La mitologia lo vuole sposato con più donne, dalle quali ebbe diversi figli, forse quattordici, ma è con Pasifae, sorella della maga Circe, che il destino di Minosse si complica. 

Poseidone, dio dei mari, fece dono a Minosse di un bellissimo toro bianco che avrebbe dovuto sacrificare agli dei. Il sovrano rimase affascinato dalla bellezza dell’animale e pensò che sarebbe stato un peccato ucciderlo, per questo la vendetta di chi forse aveva voluto solo mettere alla prova il re fu terribile. Sua moglie si invaghì del toro fino a giacere con la bestia, dalla loro unione nacque un essere mostruoso: il Minotauro. L’orrenda creatura fu rinchiusa nel labirinto che gli architetti Dedalo e Icaro, padre e figlio, costruirono ad hoc. 

Atene, sconfitta da Minosse, ogni anno pagava un pesante tributo al re: appagava la fame di carne umana del mostro offrendo sette coppie vergini, ovvero sette maschi e sette femmine. Teseo, aiutato dalla figlia del re, che si era invaghita di lui, uccise l’orrenda creatura. 

Il Minosse di Dante ha caratteristiche fisiche molto diverse da quelle di cui parla Virgilio nel VI canto dell’Eneide, le sue sembianze sono più animalesche, basti andare a vedere come lo raffiguri Gustave Doré, incisore e illustratore francese che potrebbe essere stato suggestionato proprio dalle parole della Commedia.

 

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio. 
3

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia. 6

 

Minosse è qui un re, ma è anche giudice di anime, espleta la sua autorità con giri di coda che egli attorciglia tante volte quanti sono i gironi dove l’anima dovrà fermarsi, una volta sentenziata la colpa. 

Dante incontra altri volti, prima di arrivare a Paolo e Francesca. Gli viene mostrata dal suo maestro Semiramide, regina degli Assiri, donna così peccaminosa che per non risultare amorale e indegna legalizzò la prostituzione. Un personaggio talmente attuale che farebbe venire in mente la pornografia e l’abuso di potere di moderni politici che hanno condonato le loro colpe facendole passare per filantropia. 

Il viaggio prosegue e non terminano gli incontri. Ecco Cleopatra, regina egizia, bollata semplicemente con l’aggettivo lussuriosa e basta, poi c’è Elena, per cui tanto reo tempo si volse, le farà seguito Paride, visto che fu proprio lui a disonorare le leggi dell’ospitalità, scappando con la moglie di Menelao, re di Sparta. Il cornuto per sanare l’onore farà leva sulle ambizioni di suo fratello Agamennone, inducendolo ad attaccare la rocca di Troia. 

Il sommo poeta si sofferma su Achille, che pure ha un passato burrascoso. Prima l’amore di Deidamia, figlia di Licomede, re di Sciro, dove sua madre Teti lo aveva spedito per allontanarlo dalla guerra, poi Briseide, emblema del valore eroico di Achille, fino a Patroclo, suo cugino e amante. 

Le terzine procedono veloci, si parla di Tristano e Isotta, e intanto siamo arrivati al verso settanta. Qui Dante intravede due anime, sono degne delle migliori similitudini presenti nella Commedia, sono colombi in un cielo burrascoso di pioggia e grandine.

L’autore deve aver sentito parlare dei due cognati Paolo Malatesta e Francesca da Polenta, conosce gli intrighi che ne hanno segnato e condizionato la loro esistenza, forse Dante avrà persino incontrato, quando era poco più che un ragazzino, Paolo, dal momento che questi fu un cavaliere impegnato nelle lotte di fazione del tempo. 

Per sedare antichi rancori due potenti famiglie Guelfe di Romagna, I Polenta da Ravenna e Malatesta da Rimini patteggiano un’alleanza che sarà ratificata con un matrimonio per procura. L’intento era quello di ripristinare un equilibrio tra famiglie rivali. 

Nel Medio evo combinare un matrimonio serviva soprattutto a consolidare prestigio e ricchezza tra due casati. Mettendo insieme i beni di due famiglie si arrivava a una unità intera più significativa e più grande.

Quando Francesca si vede recapitare l’impegno di nozze per mano di Paolo Malatesta, pensa debba essere l’uomo che sposerà, invece Paolo, soprannominato Il Bello, le rimarrà cognato non marito. Lo sposo promesso è Giovanni Malatesta, meglio conosciuto con un nomignolo: Gianciotto, che significa zoppo, sciancato. 

Cupido non ha perso tempo, ha scoccato le sue frecce e l’amore di un attimo, sprigionatosi in una carezza di sguardi, è destinato a diventare amore eterno.  

È una sera di maggio nel castello di Gradara. Paolo e Francesca rifuggono da sguardi indiscreti per appagare quella passione che li lega da sempre. Stanno insieme di nascosto e leggono un romanzo erotico-cavalleresco dove si narra dell’amore tra Lancillotto, primo cavaliere di re Artù, e Ginevra, la consorte del sovrano. C’è un filo sottile che lega il destino della coppia, c’è una fine comune che li vedrà presto morti.

Il mese cui si è fatto riferimento è certamente quello degli amori, come ricorderà più tardi il poeta Salvatore di Giacomo in un’aria bellissima e struggente intitolata Era de’maggio.

 

Era de maggio io, no, nun me ne scordo
‘Na canzone contàvemo a ddoie voce:
Cchiù u’ tiempe passa e cchiù me n’allicordo
Fresca era ll’aria e la canzone doce.
E diceva: “Core, core!
Core mio luntano vaie:
Tu me lasse e io conto l’ore
Chi sa quanno turnarraie!”
Rispunnev’io: “Turnarraggio
Quanno tornano li rose
Si stu sciore torna a maggio
Pure a maggio io stonco ccà”.

 

Gli amori più sono grandi più suscitano invidia.

Qualcuno sta spiando Paolo e Francesca: è Malatestinofratello di lui, conosciuto come Il Guercio perché aveva un solo occhio. Riferirà l’accaduto a Giovanni e lui si vendicherà, pugnalando i due amanti.

 

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende. 
102

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona. 105

Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense”.
Queste parole da lor ci fuor porte. 108

 

Dante ha piacere di parlare con i due cognati, li insegue con gli occhi. Se qualche volta si è fatto rimproverare dal suo maestro per i suoi silenzi, voluti al fine di non dire cose fuori luogo, adesso egli supera ogni reticenza e chiede a Virgilio di potersi rivolgere a quei due che nell’inferno si muovono come se non ci fosse alcuna sofferenza, nessun dolore. Sono diavoli, eppure sembrano angeli per la leggerezza dei loro passi, “angeli con un’ala soltanto che possono volare solamente rimanendo abbracciati”[1]

La dolcezza che Dante riserva a Paolo e Francesca affiora già quando egli si rivolge al suo maestro, colui che finora è stato Dux, duce, condottiero, guida. Questa volta, però, lo chiama Poeta perché necessita di un interlocutore che abbia una grande profondità di sentimenti, di chi provi il suo stesso páthos, prima di avanzare qualunque richiesta.

 

I’ cominciai: “Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri”. 
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Ed elli a me: “Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno”. 

 

La scena è tra le più belle. Il movimento si anima attraverso un ossimoro: Paolo e Francesca sono chiamati dall’affettuoso grido di Dante, lasciano lo spazio dove è accolta pure Didone, regina di Cartagine, che si uccise per amore di Enea, e vanno incontro al poeta. Non temono più nulla e niente e nessuno può fermarli perché il loro amore è più forte di qualunque avversità, continua a resistere, malgrado le pugnalate di Gianciotto. 

Un autore del Novecento, Jacques Prévert, nella poesia I ragazzi che si amano sembra faccia rivivere il coraggio e l’orgoglio di Paola e Francesca attraverso l’ombra viva di generazioni nuove, sotto il fiato caldo di un lungo bacio.

 

I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno

Loro sono altrove, ben più lontano della notte,

ben più in alto del sole, nell’abbagliante splendore

del loro primo amore.

 

È Francesca che racconta: parla e piange, perché ripensare a come qualcuno abbia voluto mettere fine a quella passione che li faceva essere felici, ma anche a come le è stato tolto il suo amante, è una ferita che si rinnova, un gesto che offende. 

Qui si assiste all’apoteosi che Dante ha costruito strutturando la Commedia. Le anime rimangono persone, non sono affatto morte per sempre né hanno abbandonato il loro corpo perché le emozioni devono rimanere vive sulla pelle, non diventano cenere come le ossa dei defunti.

 

Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?”. 
120

E quella a me: “Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore. 123

Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice. 

 

Francesca appaga la curiosità di Dante, ma non parla del seme dell’amore necessario a germogliare, fa riferimento piuttosto a quelle che sono e furono già radici tra lei e il suo Paolo, un qualcosa che non si riesce a estirpare, nemmeno se si taglia la pianta. Descrive nel particolare di quando lei e il suo amante leggessero di Lancillotto e Ginevra, di come guardandosi negli occhi prevalse il desiderio di unire le loro labbra, e qui Dante ricorre a una sineddoche parlando di riso, allude con grazia a ciò che accadde dopo, senza alcuna volgarità. 

 

Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse. 
132

Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso, 135

la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante”. 

 

L’ultima terzina rivela una condizione di dipendenza tra i due amanti e le parole di Francesca inducono al pianto la sua metà. 

Paolo e Francesca hanno smesso di essere entità separate e nell’amore sono diventati un tutt’uno.

 

Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse. 

 

Anche lo scrittore E. De Luca vede nell’amore una perfetta indissolubilità e avanza l’ipotesi che pure l’universo debba cambiare le sue regole di fronte a due che si amano.  

 

Quando saremo due saremo veglia e sonno
affonderemo nella stessa polpa
come il dente di latte e il suo secondo,
saremo due come sono le acque, le dolci e le salate,
come i cieli, del giorno e della notte,
due come sono i piedi, gli occhi, i reni,
come i tempi del battito
i colpi del respiro.
Quando saremo due non avremo metà
saremo un due che non si può dividere con niente.
Quando saremo due, nessuno sarà uno,
uno sarà l’uguale di nessuno
e l’unità consisterà nel due.
Quando saremo due
cambierà nome pure l’universo
diventerà diverso.

  

Ho sempre pensato che l’amore fosse una malattia, qualcosa di virale. Del resto il sostantivo virus ha una grande polisemia di significati. Allude al veleno, potrebbe spingere a istinti irrefrenabili e dannosi.

Gesualdo da Venosa fu un superbo madrigalista del Seicento. Anche lui visse in maniera sconvolgente il tradimento della sua donna, sembra quasi che l’orrore di Paolo e Francesca si ripeta una seconda volta nella passione che Maria d’Avalos, moglie di Carlo Gesualdo, sentì e lasciò crescere nei confronti del Duca d’Andria Fabrizio Carafa, soprannominato L’Arcangelo.

I due si amarono perdutamente, prima che il marito di lei ne fosse informato. Portarono la loro lascivia per le strade di Napoli e nei giardini di Chiaia, poi finanche nel castello di Carlo Gesualdo, nel suo letto nuziale. Qui il principe assassinò i due amanti con diversi colpi di pugnale, addirittura squarciò il corpo di lei dall’inguine alla gola, avvalendosi della mano dei suoi servi.

L’episodio ricorda moltissimo quello di Paolo e Francesca. 

Il danno innescatosi è ciò che Franco Battiato chiamerà teorema adiabatico, alludendo a una trasformazione irreversibile della termodinamica. In questo caso, però, l’orrore della morte è sanato dalla lievità eterna della musica, fate silenzio…ascoltate!

 

I madrigali di Gesualdo da Venosa,

musicista assassino della sposa, cosa importa.

Scocca la sua nota, dolce come rosa,

come rosa…  

 

G.B. 19/4/2020 – Anno Pandemico

 


(1) L.De Crescenzo, Così parlò Bellavista – A. Mondadori 1977