Lo scrittore

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Lo scrittore


Sono qui per divorarti, disse l’oscura voce dinanzi a me. Allora ebbi la certezza di aver fallito di nuovo. “Quanto tempo mi rimane?”, chiesi senza riuscire a trattenere un brivido. Lo sai, rispose l’informe voce.

Da quel giorno non sono più uscito dalla torre, nemmeno per respirare un po’ d’aria fresca o per sgranchirmi le gambe.

Sempre attento a un’eventuale apparizione della voce, passavo le giornate a scrivere libri che poi rilegavo e ordinavo sugli scaffali della biblioteca, come del resto avevo sempre fatto. Non ricordo quanto tempo era passato dal giorno in cui iniziai a svolgere quest’occupazione; ma posso assicurare che ho sempre lavorato al massimo delle mie possibilità. Ogni giorno, all’alba, ero già seduto sulla mia scrivania, intento a pensare e a trascrivere tutte le varie idee che mi venivano in mente. Non volevo lasciare nulla al caso, la mia grande narrazione doveva essere impeccabile. Era faticoso, perché miliardi di miliardi di elementi dovevano armonizzarsi senza cadere mai in contraddizione.

Purtroppo qualche volta incappavo in errori o in dimenticanze, e i personaggi subito s’accorgevano dell’incoerenza che, seppur minima, scombussolava profondamente la visione del mondo che io stesso avevo impresso in loro.

Ma ormai avevo imparato persino a giustificare quegli errori: ricordo ad esempio di quella volta in cui un personaggio riuscì a resuscitare un corpo ormai gelido che, rialzatosi, riprese a camminare; per tranquillizzare gli animi spaventati da quell’evento inaspettatomi venne l’idea di integrare all’interno delle regole della narrazione il concetto di “miracolo”, conferendogli tuttavia un carattere d’eccezionalità. Numerose furono le volte in cui dovetti elaborare a posteriori aggiunte del genere: all’inizio m’infastidivano assai, ma alla fine mi convinsi che, in qualche modo, rendevano la mia storia più sincera.

La stanza dove scrivevo era piuttosto piccola rispetto al resto della torre.

Lungo le pareti del torrione principale si ergevano gli scaffali con i libri più antichi, mentre quelli recenti andavano pian piano ad occupare le altre stanze. Sotto al torrione si trovava la sala centrale, dove un grande specchio occupava metà parete; inoltre sapevo cheun secchio d’inchiostro e un piccolo pennello si trovavano lì per terra, abbandonati da chissà chi. Non vi entravo mai, anzi si può dire che facevo di tutto per evitare di andarci. Del resto il mio lavoro esigeva tanto tempo, e tanta fatica.

A volte, durante le pause dalla scrittura, passeggiavo lungo i dintorni desolati della torre. La mia abitazione era circondata da piccoli terreni inariditi, a loro volta circondati dal mare. Non era un mare simile a quelli che descrivevo nella mia storia: questo mare restava perennemente imperturbabile e silenzioso, nemmeno un’onda si muoveva sulla sua superficie. Mentre lo osservavo non riuscivo a fare a meno di chiedermi come fosse possibile che io, nella mia eterna solitudine, ero riuscito a completareun numero così infinitamente vasto di libri, tutti legati tra di loro da affinità incalcolabili e dacorrispondenze che si moltiplicavano di continuo.

Ogni elemento aggiunto andava ad interagire con quelli già presenti, e così nascevano nuove referenze, nuove cause e nuove conseguenze, e ognuna di esse, persino la più infima, andava poi ad armonizzarsi con tutto il resto e al tempo stesso a ramificarsi indipendentemente dagli altri fattoriin gioco. Un’ulteriore difficoltà era nel mio incaponirmi a mantenere alta la qualità di ogni singola micronarrazione della storia, diversificando il più possibile le trame per preservare nei personaggi l’idea che, col progredire della loro vita, avranno comunque l’impressione d’imbattersi ogni tanto in novità.

Le linee di testo più complesse da comporre riguardavano proprio loro (o meglio, ciò che dovevo inserire dentro di loro): vi era infatti il rischio estremamente elevato che, non bilanciando bene sentimentimolto complessi come quelli dell’autenticità e dell’uguaglianza, essi si sentissero o troppo diversi tra loro o troppo diversi da se stessi. È successo spesso, non lo nego.

Per limitare il più possibile questo fenomeno, mi permisi di preindirizzare i personaggi verso la possibilità di elaborare autonomamente domande e soluzioni su ciò che li circondava.

Nella maggior parte dei casi questo mi permise di ottenere quel bilanciamento che cercavo; qualcuno, come mi aspettavo, riuscì a fare molto di più. Avevo infatti iniziato ad aggiungere elementi sempre più complessi alla storia che stavo edificando. Facendo evolvere le lingue che inizialmente avevo creato per permettere ad alcuni dei miei personaggi (pochissimi, per la verità) di poter comunicare tra loro, ecco che decisi di abbozzare nella narrazionela facoltà di inventare nuove parole e di scrivere libri. Questo fu un passo decisivo; da lì in avanti il mio lavoro risultò raddoppiato, giacché ora non potevo più limitarmi a scrivere micronarrazioni complesse e diversificate che ruotavano intorno ai personaggi, ma dovevo scrivere anche micronarrazioni complesse e diversificate per i personaggi.

Questo rallentò il ritmo della storia complessiva; ma (ed era ciò che volevo) mi permetteva di renderla più genuina.

I personaggi che accettavano i nomi delle cose iniziarono a credere di essere più importanti dei personaggi incapaci di parlare. Anche se la mia intenzione originaria era quella di delineare profondamente tutti i molteplici aspetti del mondo che avevo creato, fui infine costretto a concentrarmi su una minoranza che tentava ferocemente di emergere. I nessi consequenziali che avevo messo a punto con mille difficoltà spingevano proprio in quella direzione e io, da narratore, decisi di attenermici scrupolosamente.

Per facilitarmi il lavoro iniziai allora a suddividere le varie micronarrazioni in microtrame di gran lunga più piccole, e poi di ridividere quest’ultime in blocchi ancora più circoscritti, limitando così al minimo relazioni tradiverse linee narrative; nel corso del tempo continuai a frammentare la mia storia in insiemi sempre più specifici. Fu troppo tardi quando mi accorsi che questa divisione non era solo formale. Alcuni personaggi della mia grande storia cominciarono ad avvertire, indipendentemente dalla mia scrittura, un senso di opulenza, come se s’accorgessero tacitamente che la storia di cui facevano parte aveva smesso d’essere un’unità.

Forse ciò era altresì dovuto dal fatto incontestabile che, con l’accrescimento dirompente delle microtrame, aumentavano pure le probabilità che qualcosa mi sfuggisse (una corrispondenza mancata, una conseguenza mai effettuata, e forse addirittura storie lasciate in sospeso, rimaste a metà strada e in attesa di arrivare a una conclusione).

Fu allora che iniziai a sentire la voce informe. Giunse come un messaggero di sventure, e come tale l’accolsi. Ti vedo in difficoltà, disse durante il nostro primo incontro, Eppure sei sempre stato un narratore ineccepibile. “Sistemerò”, risposi esitante. Poi chiesi: “Non c’è più nulla che posso fare?”, No, sussurrò la voce, Presto ti divorerò.

Nel terrore estremo che tutto crollasse, io continuavo a lavorare, giorno e notte, senza fermarmi quasi mai, e facevo di tutto pur di sistemare la narrazione. Ma mi resi subito conto che, ad ogni pezza ricucita, venivano a formarsi centinaia di migliaia di altri strappi; ormai la storia era nel caos più totale, la logica delle corrispondenze appariva infranta, i vari elementi si mischiavano tra loro senza che ci fosse un briciolo di senso e persino i nessi causali stabiliti all’alba dei tempi adesso si erano spezzati. La corruzione non riguardava solo il presente, il pezzo della storia a cui ero giunto; si diffuse inesorabilmente anche alibri scritti millenni fa, e supposi che pure le pagine ancora bianche e gli istanti non ancora realizzati erano ormai già stati compromessi.

Fui invaso dalla più cupa delle disperazioni: la mia storia era perduta, e il mio quasi eterno lavoro era stato inutile.

Eppure conosci la soluzione, sentii dire dalla voce informe. Sì, la conoscevo. Tremando, mi diressi verso lo specchio della sala centrale. Raccolsi il secchio d’inchiostro e il pennello che si trovavano lì per terra, abbandonati da chissà chi nella consapevolezza che quel giorno sarebbe arrivato. Mi guardai allo specchio: ciò che vidi fu un’ombra nera, senza forme, col volto dissestato dal caso e dal vuoto strisciante. Immersi il pennello nell’inchiostro e poi scrissi il mio nome sull’immagine riflessa. Nell’istante successivo avvertii le membra invase da un muto orrore: la voce mi divorava, io consumai me stesso, tutto era calore infinito, assordante, glaciale. Alzati e cammina, disse, ed entrai nella mia storia.

Il giorno seguente ero un personaggio come tutti gli altri. Presi a vagare nella mia costruzione.

Come sempre, m’accorsi che gran parte di coloro che osservavo vivono nell’illusione di trovarsi dentro una narrazione logica e coerente, come quella che avevo cercato in tutti i modi di instaurare. Sono pochi, pochissimi, coloro che si sono accorti della mia disfatta. È a loro che lascio questo piccolo biglietto scritto in una delle loro lingue, affinché rimanga almeno una testimonianza della verità in quest’universo di finzioni. Presto la mia narrazione collasserà su se stessa, sbriciolandosi nel caos. Allora rimarrò di nuovo solo. Raccoglierò da terra le macerie rimaste, e con esse costruirò un’alta torre uguale a quelle precedenti, sempre circondata da un mare imperturbabile e silenzioso.

Lì, tra le rovine del vecchio mondo, mi metterò a scrivere e a pensare a una nuova narrazione. Cercherò un’altra volta di salvarla da se stessa e un’altra volta fallirò. Vivrò in essa per un breve periodo e poi riprenderò a scrivere ancora, e ancora, e ancora, fino a quando non realizzerò una storia perfetta ed insostituibile, e non ci saranno più contraddizioni.


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