Sussulti dell’anima

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Oggi mi è capitato di vedere un bambino del terzo piano di fronte a me che giocava con un aquilone dal suo balcone. La finestra del balcone si è aperta improvvisamente ed è sbucata fuori la madre, che mentre parlava al telefono ha afferrato il sostegno dell’aquilone giallo e lo ha portato via dalle mani del bambino. In quel preciso momento ho smesso di credere a due cose: alla famiglia e ai figli.

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Un antico testo cinese, sicuramente corrotto da chi vi mise mano nei secoli successivi, dice così: «Solo i saggi da giovani imparano con terrore che ciò che li lega alla famiglia è un filo sottilissimo che nasconde l’attimo supremo dell’estraneità. In un momento decisivo della loro vita rientreranno in loro stessi e per la prima volta capiranno che ciò che li unisce è unicamente il legame di parentela, nient’altro; capiranno che quelle stesse persone che li misero al mondo e li curarono e li nutrirono potrebbero essere perfettamente degli estranei; capiranno che se capitasse loro di trovarsi sulla stessa strada dopo che ad entrambi fosse occorso un forte attacco di amnesia, senza dubbio si ignorerebbero senza rivolgersi nemmeno lo sguardo». Poi il testo va avanti per qualche riga e riferisce che questi saggi potevano contarsi sulle dita di una mano ai tempi dell’antica Cina, e aggiunge che la maggior parte di loro morì senza poter insegnare questo segreto ai propri discepoli. 

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Chi una domenica mattina si affacciasse sulle strade delle città del meridione avrebbe di fronte agli occhi una scena d’altri tempi: un anziano dal corpo consumato, in canottiera bianca, sta salmodiando dal suo balcone con voce insieme solenne e increspata. I vicini dapprima lo ignorano. Poi alza il tono della voce, il ritmo si fa incalzante – il senso irresistibile. I più curiosi sono sempre gli estranei; i palazzi adiacenti cominciano a popolarsi nelle aree ristrette dei balconi. Solo i più attenti notano un’asta di legno conficcata nel cemento alla sommità del balcone. Affianco vi è una corda tesa verticalmente. Ma siccome l’attenzione non è di questo mondo, minuti interi devono passare prima che anche i meno svegli, ammaliati dal canto soporifero, possano ridestarsi dal loro torpore mattutino. Il vecchio dal corpo consumato, in canottiera bianca, che pochi istanti prima salmodiava con passione, ha teso la corda – e si è impiccato.

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Io sono il messia, così ho detto. Io porto il verbo, ho continuato. A me manca chi esegua le azioni che implicano i miei verbi, ho quasi concluso, vi dico: un momento. Chi è disposto a portare il peso delle cose morte, dei nomi, degli aggettivi, di tutto ciò che bisbiglia senza muoversi? Ditemi, chi? 

Ho finito.

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Tutte le mie notti sono insonni, ma quella di ieri in modo particolare. Mi sono alzato per bere un sorso d’acqua, e accanto ai bicchieri ho trovato gli appunti che avevo compitato nel pomeriggio. Li ho riletti velocemente per costringerli in una formula avvilente: più scrivo e peggio scrivo. Poi mi sono seduto, ho afferrato il bicchiere ed ho pensato che vita e scrittura seguono una stessa legge: quanto più crescono, tanto più si guastano. Allora perché si scrive, perché si vive?

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La scorsa estate in un’antologia di racconti e aneddoti orientali ho letto una storia che mi è rimasta impressa a lungo. Una schiera molto folta di anziani, che per l’ostilità del feudo fu costretta a costituirsi setta, si rifiutava di raccontare le storie della propria giovinezza ai nipoti, che era un obbligo stabilito nell’ultimo editto del signore. Reclamava il santo diritto di non voler mentire ai propri nipoti, di volergli lasciare la sacra facoltà di fare esperienze in modo autonomo, senza ripetere quelle degli avi per poi lamentarsi della monotonia della vita in qualche poesia crepuscolare. Le famiglie incominciarono ad esasperarsi per la ritrosia dei loro parenti, e i funzionari del feudo furono stimolati dal loro signore a creare ancora più scompiglio. Gli anziani si rintanarono nelle loro grotte montanare, e i nipoti subirono l’influenza negativa dei genitori. 

Prima del nuovo raduno feudale, la setta si riunì sulle montagne e decise di prendere una soluzione estrema. I più anziani prepararono il composto e la sera stessa si avvelenarono. La storia si conclude con l’inasprimento delle pene e l’ultimo editto feudale. 

Cinquant’anni dopo iniziò l’era di maggior splendore della poesia cinese.

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Ho sognato:

 

che una sera, afflitto dalla noia, andai a casa dei miei nonni e trovai mio nonno ringiovanito di molti anni. Era come non lo avevo visto mai, sembrava uscito da una di quelle foto giovanili che appendeva alla parete del corridoio. Mi avvicinai per abbracciarlo e mi fece segno di sedere. Per accertarmi che non stessi sognando abbassai lo sguardo per osservare le vene dipinte sulle sue gambe, che erano un effetto della vecchiaia. Sul suo volto si stampò allora un’espressione di scherno. Mi guardai di nuovo le gambe: erano incartapecorite come quelle di un vecchio. Mi sollevai dalla sedia in cerca di uno specchio, ma appena feci per alzarmi ricaddi per terra. 

 

Poi mi si chiusero gli occhi per la stanchezza e mi addormentai. 

 

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Ultimamente ho una strana sensazione quando qualcuno accende la televisione e poi facendo altro si dimentica di spegnerla o di abbassarle il volume. Mi sembra che essa si prenda gioco degli ingenui che credono di averla sotto controllo solo perché si possiede un indocile telecomando di plastica (avete notato che molto spesso non si ha la minima idea di dove si sia cacciato?). Poi, ed è questa la sensazione più raccapricciante, sento che la televisione inscena un circo meccanico ancestrale in cui non solo i primitivi mettono alla berlina la modernità dei più evoluti, ma anche, ed è questa, credetemi, la cosa peggiore, che tutte le trasmissioni vengano dirette col solo scopo che i morti insultino i vivi.

 

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Vi è una strana credenza al mio paese. Molte ragazze dai corpi flessuosi credono che godranno di un’eterna giovinezza e, completamente a digiuno di testi latini, non conoscono la leggenda della Sibilla Cumana. Un giorno gliela raccontai, e poco tempo dopo, era tardo pomeriggio, mentre camminavo per il foro trovai una ressa di persone davanti alla porta dell’indovino. Mi avvicinai per cercare di riconoscere il profilo delle facinorose avventrici, e non feci molta fatica a scorgere il volto delle illetterate. Alcune spendevano il loro fiato in urla rabbiose, per poi ritirarsi nelle seconde file per dare il cambio alle altre. Quando mi fui avvicinato abbastanza, presi posto e mi godei l’insolito spettacolo. Più tardi, rincasando, spiegai la mia tesi al mio interlocutore preferito, il silenzio: la gioventù dei nostri giorni è talmente ossessionata dal mantenimento di uno stato transitorio, che non potrà sopportare un periodo tanto arido e inamovibile come la vecchiaia. Poi, siccome oltre al silenzio ho un compagno d’eccezione, il buio, fui esaltato dal calare della notte e in un lampo d’ispirazione mi gettai a capofitto nella discussione di questa profezia: in futuro tutte le comitive giovanili si sarebbero trasformate in tribù con l’unico scopo di allontanare la vecchiaia. Il contraccolpo fisico e psichico sarà ingestibile, e per conservare un’oncia di dignità di fronte al pubblico romano esse manderanno avanti, travestite, le loro figlie, per inscenare la parte delle madri. L’inevitabile esplodere di un sistema di accoppiamento esogamico porterà Roma, la città imperiale per eccellenza, alla sua più rovinosa distruzione. 

 

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Non capisco le discussioni oziose sul ruolo dell’udito nelle cosiddette città intelligenti del futuro. Permettete ad un moribondo come chi scrive di esprimere la propria idea. Il vociare si sarà estinto, perché tutte le altre cose parleranno per noi. Così, si potrà passeggiare per le strade in modo silenzioso ed essere allo stesso tempo inondati da una miriade di rumori. Il silenzio cederà l’anello del pensiero al rumore. Anche chi pensa, di conseguenza, dovrà fare molto rumore per farsi ascoltare. 

 

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L’anno scorso in una galera cubana ho conosciuto un personaggio eccezionale. Diceva di essersi imbarcato per l’oceano nella barca più sgangherata di tutte per cercare di ricreare le atmosfere di Poe, Conrad e Stevenson. Comunque, ci teneva a precisare che non era inglese, ma australiano. Considerava gli isolani tutti di una stessa razza. Poi, quando arrivò l’orario della mensa e si sollevò un brusio avvolgente, mi spiegò perché si trovava dietro quelle quattro sbarre di ferro. Disse che lui era l’uomo più malato del mondo, ma mentre discorreva così mi mise una mano sulla spalla pregandomi di non fraintendere: non soffriva di alcun male clinico, ma di un male, così lo chiamò, universale, per cui non poteva resistere nemmeno un minuto senza la lettura di un romanzo. Siccome questo male gli impediva di scrivere anche una sola riga, si ritenne un uomo fortunato quando all’ingresso dell’isola gli intimarono di fermarsi per chiedergli i documenti e portarlo in prigione. Era infatti la persona più felice del mondo in quel sordido covo di vipere, e mentre stuzzicava il cibo mi guardava con occhi sfavillanti. Solo qualche giorno dopo capii il perché. Mi pregò di seguirlo nel bagno dopo il pranzo in mensa, e lì, inginocchiandosi, mi disse che solo io avrei potuto salvarlo. Perché? Non si sarebbe mai perdonato il peccato letterario di scomparire dal mondo senza lasciare traccia, e dopo essersi rialzato mi implorò con voce rotta dal dolore di scrivere un resoconto delle sue letture ed esperienze, che si sarebbe premurato di raccontarmi nei giorni che gli rimanevano ad ora di pranzo, visto che durante il controllo sanitario disposto dai penitenziari gli era stato diagnosticato un male incurabile. Feci cenno di sì col capo, ed iniziammo subito la laboriosa stesura. Il giorno dopo fui molto stupito nell’apprendere da un suo compagno di cella che l’australiano era fuggito nella notte durante la solita sanificazione sanitaria. Aveva lasciato un biglietto per me, sotto il quale vi erano dei libri incatastati dei grandi narratori ottocenteschi, tra cui i suoi amati Stevenson, Conrad e Poe. Quando presi in mano l’ultimo volume trovai un messaggio inciso sul legno della scrivania su cui erano poggiati i libri in cui mi invitava ad abbandonare quell’idea balzana dell’autobiografia, perché la vita che aveva e avrebbe vissuto era tutta nei libri che avevo appena preso fra le mani.

 

 

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Tutti i nostri gesti, dal più banale al meno avventato, cosa sarebbero senza la reazione degli altri? E la morte, anche l’atroce morte, una morte che fosse taciuta ad ognuno, non sarebbe essa stessa un semplice gesto, come quello di aprire una confezione di cibo o sbucciare un frutto esotico? Forse le reazioni teatrali di fronte ad essa hanno il solo compito di mascherare la sua intrinseca semplicità.

 

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I giovani e i vecchi sembrano più distanti che mai, ma lo sono solo apparentemente. Un dolore di due forme differenti li unisce: agli uni in forma di lamento morale, agli altri di carattere fisico e fisiologico. Eppure, basta un piccolo bagliore intuitivo per comprendere che le due forme non sono che gli stadi successivi di una stessa evoluzione: ci si lamenta da giovani per allontanare l’avvento sicuro di un dolore fisico, e si preferisce rintanarsi in un silenzio moraleggiante da vecchi solo per cercare di richiamare i dolori meno pungenti che si sono provati molti anni prima.

 

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Non so, io sono rifugiato in questa montagna da molti anni, ma dal villaggio mi giungono voci inquietanti: molte donne non riescono a diventare vecchie, non perché non lo siano effettivamente, ma perché l’insistenza con cui guardano le immagini e i video che registrarono durante i loro anni giovanili le illude sulla loro reale età. Dicono anche che paradossalmente, tra qualche anno si realizzerà il rovesciamento epocale per cui l’età bramata e rimpianta da tutti non sarà più l’adolescenza, ma la vecchiaia. Il capo del villaggio, allarmato da questa prospettiva, ha bruciato nella piazza principale tutti i dizionari. 

 

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Nelle mie lunghe peregrinazioni ebbi la fortuna di incontrare un vecchio saggio che non appena vide che custodivo nella tasca del mio zaino un giornale lo prese in mano e dopo averlo scrutato da ogni lato disse: “Sa qual è il loro problema? Che si fregiano sempre di essere i filtri indispensabili per un buon funzionamento della democrazia, ma in molti articoli la prima parola del loro titolo è la particella «se». L’idea di un’esistenza solamente ipotetica di quello che discutono nei loro articoli contraddice completamente il ruolo preponderante che essi credono che gli spetti nella società”.