Non sai chi sei? Dante ti darà consiglio: “Considerate la vostra semenza; fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”

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“Considerate la vostra semenza”

Se si pensa al Canto XXVI dell’Inferno non si può trascurare il “Folle volo” di Odisseo, tanto condannato da Dante. Ed è qui che mi riallaccio per esaminare una delle possibili interpretazioni della follia, la quale potrebbe persino rispecchiare, se presa dal seguente punto di vista, l’essenza umana, la nostra “semenza”. La parola “follia” deriva dal latino “follis”, che significa “pallone” o “sacco vuoto”, dunque, metaforicamente, una persona folle, che ha perso la ragione, è una persona con la testa vuota, proprio come un pallone. C’è già stato qualcuno a scrivere un “Elogio della Follia”, intorno al 1500. Si tratta di Erasmo da Rotterdam, che nella sua opera personifica la Follia rendendola la vera protagonista di un’autocelebrazione in cui passa dal presentare il suo estremo negativo per poi arrivare a quello positivo: la fede in Cristo, definita “follia della Croce” da San Paolo. Il mio intento non è quello di replicare il lavoro di Erasmo, ma esso è sicuramente un valido punto di riflessione da cui partire. Per lui, infatti, la follia ha un valore aletico, è rivelatrice della verità: “In me non c’è posto per il trucco, non fingo con la mia espressione qualcosa di diverso da ciò che si nasconde nel cuore. A me è sempre piaciuto dire tutto quello che ho sulla punta della lingua” dice la Follia. Perciò la follia, posta in questi termini, si può considerare anche sinonimo di libertà, poiché permette di esprimersi con totale spontaneità, in un trionfo dell’es sul controllo di ego e superego; e un folle è una persona del tutto trasparente, spoglia della maschera da perfetto uniformato che lo rende anonimo in mezzo alla società e normale agli occhi di essa. Forse proprio per tale motivo che in generale si tende ad evitare i contatti con individui di questo tipo, categorizzati come “strani”, “diversi”, “non raccomandabili”. Ma nel nostro intimo, inconsciamente, li riteniamo dei modelli a cui aspirare, e la reale causa per cui manteniamo le distanze, è che le persone cosiddette “folli” sono fin troppo oneste e coraggiose, fedeli alla propria natura tanto da non farsi problemi a manifestarla per come è, mentre noi, non abbastanza impavidi da emularli, ci conformiamo ad uno stereotipo di convenienza e regoliamo la nostra attitudine affinché rientri negli schemi imposti dalla civiltà. Ciò per cui non vogliamo avere a che fare con la follia, né tanto meno coi folli, è che la verità ci spaventa, infondendoci la paura della nostra stessa essenza. La convinzione che essere folli equivalga ad essere irrazionali, privi di senno, non è necessariamente l’unica spiegazione plausibile, poiché l’essenza dell’uomo, che lo rende tale, non è l’istinto, ma la ragione stessa, che distingue il genere umano dalle altre specie animali. Dunque la follia, se consiste nel lasciare le redini d’azione in mano alla propria essenza, si traduce nel farsi guidare ciecamente dalla propria ragione, perciò non dovremmo avere timore della follia, ma completa fiducia in essa, perché fingersi qualcosa che non si è realmente solo per adattarsi alle convenzioni comuni, gradualmente distrugge la nostra autentica personalità. Inserendole nel mondo, infatti, una persona normale si può paragonare ad un sacco colmato ed appesantito dai condizionamenti esterni, mentre una persona folle a un pallone riempito solo della propria leggerezza di spirito: il sacco pieno in mezzo al mare affonda, ma il pallone resta a galla.

“Fatti non foste a viver come bruti”

“Non è che i giovani d’oggi non abbiano valori; hanno sicuramente dei valori che noi non siamo ancora riusciti a capir bene, perché siamo troppo affezionati ai nostri” (Fabrizio De André, 1998). Come la materia, i valori non si creano né si distruggono, ma si trasformano. Il quesito da sbrogliare, dunque, non è se essi rimangano oppure no, poiché è naturale che ci siano sempre, ma se siano i valori a stare al passo con lo scorrere del tempo o il tempo ad assecondare il cambiamento dei valori. E’ azzardato alludere ad una “perdita” dei valori, in quanto potenzialmente, se fosse di nostra volontà, potremmo recuperarli in qualsiasi momento, come libri impolverati lasciati per anni su uno scaffale, che però, concretamente, sono e rimarranno sempre lì, bramando il tocco di una mano curiosa che li apra di nuovo per sfogliarli. Solitamente non ci si accorge dei mutamenti graduali, ma questi vengono notati solo quando paiono repentini e marcati. Il tempo studiato sui libri di storia, un secolo alla volta, sembra cambiare continuamente e in modo abissale, ma quando si vive in tempo reale, giorno per giorno, le differenze saltano molto meno all’occhio umano, il quale tende ad abituarsi progressivamente per non essere sconvolto dalla decadenza che gli anni pian piano riversano sul suo corpo. Per lo stesso motivo, i giovani d’oggi non soffrono per il calo generazionale delle virtù, perché inconsapevolmente adattati ad una società la cui evoluzione va, per ora, di pari passo con lo sviluppo dell’ignoranza, per quanto tale definizione possa apparire un ossimoro. D’altronde, ogni generazione è considerata peggiore dalla sua precedente, ritenendosi però migliore della successiva, in un ciclo infinito di critica tutt’altro che costruttiva, quindi futile e controproducente. Il grande De André, affermando che i giovani d’oggi hanno valori non compresi da chi è venuto al mondo prima di loro ed è troppo affezionato ai propri valori per capirli, si personifica in un “piccolo principe” che tenta di far ricordare agli adulti di un mondo serioso, le pure sensazioni infantili in cui talvolta sarebbe un bene reimmedesimarsi, ed in questo sono d’accordo. Eppure, sebbene con tali parole potrebbe sembrare che io dipinga i miei coetanei come un gruppo di bambini vittima dell’incomprensione altrui e i cui problemi hanno una gravità non concepita come soggettiva dai più attempati, c’è da ammettere che non tutti i ragazzi di oggi riconoscano l’effettivo deterioramento dei valori socio-politici nel senso filosofico del termine, tanto che il passaggio di generazione in generazione potrebbe tranquillamente chiamarsi, in base alle caratteristiche che presenta, “degenerazione”. La storia si ripete sempre uguale, ma commettiamo comunque i medesimi e ripetitivi sbagli, ed è proprio questo che ci rende meno virtuosi: “errare humanum est, perseverare autem diabolicum”. In verità, nell’immensa Atene che costituisce il nostro Paese, come essa falsamente democratico e logorato da una corruzione tirannica, sono rari e singolari gli inguaribili nostalgici Socrate Platone che rimpiangono i valori d’un tempo perduto e desiderano riafferrare il giusto principio tornando all’originale morale dei padri fondatori. La succube maggioranza, invece, è costituita da una folla influenzabile, seguace dei potenti padroni che incitano il cambiamento distruttivo spacciandolo per legittima innovazione, disposta a farsi abbindolare, che sia per ignoranza o per indifferenza. Ebbene, l’unico rimedio possibile per riprendere a coltivare i nostri valori, seminando virtù e raccogliendone i frutti, è la cultura, l’informazione, la consapevolezza, ricordando che la prima condizione necessaria per realizzare tutto ciò, è il voler riprendere in mano quei libri impolverati e saperli leggere.

“Ma per seguir virtute e canoscenza”

I sostenitori di Aristotele si trovano d’accordo sul fatto che l’uomo sia per natura un animale politico, cioè che senta il bisogno innato di circondarsi dei propri simili per costruirsi un’identità a partire dai rapporti che vi stringe. Ma personalmente, in contraddizione con tale principio, ritengo che l’uomo sia per essenza solo ed isolato, e che successivamente sviluppi una tendenza sociale che lo spinga a vivere in comunità. Proprio per tale motivo, il valore che reputo fondamentale in ogni individuo, è l’autonomia, in quanto virtù alla base di un’esistenza autosufficiente. Oggi, a differenza di un tempo, l’autonomia sta diventando un attributo sempre meno scontato, dal momento che si suole dipendere da altre persone. Per giunta, molti non adottano quella che è la vera autonomia poiché farlo prevede due requisiti indispensabili ma talvolta faticosi da perseguire: egoismo e coscienza. Esaminiamo ora questi concetti, al fine di capire appieno le sfaccettature del valore in questione. Sebbene l’egoismo sia, per l’opinione odierna, di concezione negativa, io, se inteso nel senso freudiano del termine, lo reputo un grande pregio, una qualità a cui aspirare. La mia interpretazione di egoismo è infatti quella di una giusta misura, un compromesso, tra impulsi e limiti autoimposti, dalla cui relazione è determinato l’equilibrio dell’io. Non voglio certo disdegnare l’unione e la solidarietà, perché consapevole che trascorrendo del tempo in compagnia, sia con gente simile che diversa da noi, possano nascere rapporti utili per entrambi i fronti, nonché stimolanti dibattiti e scambi di punti di vista. Tuttavia, prima di arrivare a ciò, incoraggio il raggiungimento di totale indipendenza dagli altri, poiché è solo quando avremo imparato a vivere da soli, contando su nulla al di fuori delle nostre risorse e capacità, che potremo convivere pacificamente con gli altri, senza che le nostre esigenze pesino su chi ci circonda. Veniamo ora a definire la coscienza. E’ questa una forma d’intelligenza altamente soggettiva, una conoscenza di tipo morale che non si apprende necessariamente sui libri, e la dimostrazione è che ci sono coloro che non hanno la possibilità di fruire tale cultura attraverso uno studio vero e proprio, pur essendo ugualmente dotati della suddetta caratteristica. Piuttosto, la coscienza è il senso etico, sviluppabile all’interno di ognuno di noi, grazie al quale riusciamo a distinguere il bene dal male, acquisendo spirito critico e agendo di conseguenza a ciò che si è appreso. Eppure, questo grillo parlante che ci saltella nella mente, non è in tutti casi un essere benigno, dato che alcuni coltivano delle virtù oggettivamente sbagliate e malvagie, nocive per loro stessi e per la gente ad essi circostante, ma inconsapevolmente, convinti invece di trovarsi dalla parte della ragione, in quanto sono stati abituati ad un tale stile di vita dalla società in cui sono cresciuti. E qui torna in ballo il tema, strettamente legato, dell’egoismo trattato precedentemente: per fare un esempio concreto, in certi Paesi o epoche storiche, si condivide e si è condiviso, incoraggiandolo, il valore della razza pura, che implica la considerazione negativa e la sminuimento di quelle che ne differiscono. Ma il problema non si porrebbe se tutti si dedicassero solo ai propri affari. In effetti, pensando esclusivamente a se stessi, per quanto la faccenda potrebbe risultare poco solidale e carente di altruismo, non si rischierebbe nemmeno di provocare danni al prossimo. Inoltre, reputo che solo coltivando una sana pienezza di sé si possa avere realmente qualcosa da dare agli altri, perché una persona vuota, o svuotatasi di quella che è la propria vera essenza per rientrare nei canoni considerati “normali” da un nucleo sociale, non riuscirà mai a realizzarsi coerentemente e fedelmente ai propri principi, figuriamoci a trasmettere positività al mondo esterno. Interessarsi attivamente alle dimensioni civili altrui, oltre che rispettandole in modo passivo, è senz’altro un bel gesto, ma se si presentasse la possibilità che l’intento vada storto per poi sfociare in un sentimento opposto di odio, sarebbe più saggio starsene sulle proprie, così che non possa esserci un pericolo eventuale, causa di scontro fra le due parti. Se la mia libertà finisce dove comincia la tua, e viceversa, l’unica soluzione davvero priva di controindicazioni, è saper vivere in autonomia, arrangiandosi ed attenendosi alle proprie regole, compiendo i doveri e gli sforzi necessari che siano fruttuosi a noi stessi. Soltanto allora, anche la condivisione sarà un’arte sicura.