I primi approcci con l’automobile. Verso la fine della frequentazione del Liceo e avvicinandosi anche il compimento del diciottesimo anno di età, un’altra aspirazione di noi giovani cominciava e “roderci dentro”.

Alcuni miei compagni, forse i più privilegiati, cominciavano a venire in possesso dei nascenti scooter: la Vespa o la Lambretta. Noi, miseri e coatti pedoni, guardavamo i compagni a cavallo di quell’oggetto rombante a volte con seduta sul seggiolino posteriore e di traverso una ragazza e ciò creava in noi una invidia inimmaginabile. Però, a dire il vero, per quanto mi riguarda, quella motoretta con due rotelline e abbastanza instabile non ha mai attirato più di tanto la mia attenzione. Il mio sogno (forse inarrivabile) era quello di avere una macchinetta, magari la mitica Topolino o addirittura la nascente 600 della Fiat. Ma prima di tutto bisognava avere la patente e quello era già un buon passo, se non altro per farsi belli esibendo l’agognato documento anche se non si possedeva il veicolo.

Sarebbero stati i primi approcci con l’automobile. Però….però mio padre aveva l’automobile e allora perché non approfittarne di questa occasione?

Si trattava di imparare a guidare quel mezzo, ma … i soldi per la scuola guida? Non potevo nemmeno sognarmeli, prima di tutto non li avrei mai accumulati risparmiando sulla “paghetta” settimanale, inoltre non li avrei mai ottenuti dai miei genitori per quel solito motivo di severità che mi avrebbe costretto e sentire un perentorio rifiuto adducendo che ero troppo giovane per certe cose.

Allora?

Allora dovetti far funzionare la mia fantasia e la mia furbizia. Innanzi tutto il mio spirito d’osservazione abbastanza spiccato mi ha sempre permesso di memorizzare tutti i movimenti che eseguiva mio padre durante la guida della macchina. Poi escogitai uno stratagemma per mettere in pratica ciò che avevo imparato osservando. Quando mio padre, dopo aver pranzato, si concedeva un pisolino sulla poltrona, io asportavo dalla tasca della sua giacca appesa all’attaccapanni, la chiave della macchina, scendevo in strada e cominciavo a percorrere i pochi metri che la strada e fondo cieco (dove abitavamo) mi permetteva. Così facendo cominciai a prendere dimestichezza con il mezzo, ma non era sufficiente.

Allora dovetti mettere in pratica un’altra mia prerogativa: una certa abilità nel “fai da te”.

Con limette e altri attrezzi vari, riuscii a fabbricare un duplicato della chiave della macchina (le chiavi di allora erano più semplici di quelle in uso oggi) che mi permetteva, nelle ore serali, di “rubare “ la vettura e poter percorre anche parecchi chilometri: SENZA PATENTE! Però prendevo sempre più dimestichezza nella guida.

Dopo un certo periodo, mi resi conto che avevo acquisito una notevole padronanza del mezzo e avrei potuto tranquillamente sostenere l’esame. Andai ad iscrivermi alla Motorizzazione e dopo alcuni giorni sostenni l’esame di teoria, brillantemente, ma poi avrei dovuto sostenere l’esame di pratica. Ma qui si presentava un ostacolo quasi insormontabile.

Siccome ero un privatista, dovevo recarmi nel luogo preposto per sostenere l’esame di guida, con la macchina propria e accompagnato da una persona patentata: come fare?

Non restava altro che interpellare un operaio di mio padre, che gli faceva anche da “fac totum” e un po’ da autista, corromperlo per fargli dire a mio padre che quel giorno la macchina non era disponibile perché necessitava di qualche revisione. La machiavellica “combine” funzionò ed entrambe ci recammo nella mitica Via Gattamelata di Milano dove aveva sede la Motorizzazione Civile, sede d’esame, per conseguire l’idoneità alla guida. Sulla macchina di mio padre – allora una Opel Olimpia a tre marce – salì l’esaminatore che prese posto nel sedile posteriore. Dopo un breve percorso, il funzionario, con aria quasi insospettita e arrogante, mi chiese per quale motivo non ingranavo mai la quarta marcia, al che, guardandolo in faccia attraverso lo specchietto retrovisore e con fare ironico, gli risposi che l’operazione era impossibile, avendo quella vettura solamente tre marce!

Non ho mai capito se la domanda del funzionario aveva lo scopo di un salta fosso o era solamente frutto di incompetenza: io propendo per la seconda ipotesi!

Dopo alcuni altri pochi metri, l’esaminatore mi indicò di ritornare in sede perché l’esame era finito, soprattutto positivamente. Alcuni giorni dopo, la Prefettura di Milano mi consegnò il tanto desiderato documento. Orgoglioso come non mai, al ritorno a casa esibii a mio padre l’agognato documento. Il genitore, al primo momento ebbe un senso di stupore e mi chiese come avessi fatto ad intraprendere tutta la trafila per arrivare a conclusione. Gli spiegai il tutto e come risposta mi sentii dire: “Si, hai la patente ma non sai guidare”. Mi si raggelò il sangue nelle vene!

Trascorsero alcuni giorni e un bel venerdì mio padre, persona di pochissime parole, disse a mia madre che il giorno successivo, sabato, lui e Claudio sarebbero andati alla buon’ora a fare una gita in macchina, ritornando domenica.

Alle sette di sabato partimmo e per volere di mio padre, mi sedetti al posto di guida della ormai famigliare Opel, tanto a me cara e della quale conoscevo tutti i segreti di manovrabilità e tenuta di strada. Chiesi a mio padre dove saremmo andati e lui, sempre a causa della sua poca loquacità, non me lo volle dire ma si limitava ad indicarmi, man mano, la strada che avrei dovuto percorrere, quasi fosse un moderno navigatore satellitare! In poche parole, dopo alcune ore di viaggio, che non dimenticherò mai, giungemmo sul Passo dello Stelvio, 2758 metri sul livello del mare, dopo aver percorso una infinità di curve, controcurve, rettilinei che mi sembravano infiniti e tornanti da mozzafiato.

Arrivato a destinazione il mio cuore non sapevo più dove fosse e il sudore espulso dal mio corpo mi aveva forse fatto diminuire il peso corporeo di parecchi chili.

Però, l’aver raggiunto come mio vero primo viaggio e con i miei mezzi quel Passo alpino percorrendo la strada più alta d’Europa, mi aveva inorgoglito non poco, sapendo inoltre d’avere al mio fianco un taciturno ma severo controllore dei miei movimenti e del mio comportamento da novello autista.

Ma durante tutto il viaggio, dalla bocca di mio padre non uscì nemmeno un suggerimento e tanto meno un rimprovero.

Pernottammo in albergo e il giorno dopo si ripeté lo stresso tragitto, naturalmente in discesa ma con lo stesso patema d’animo, anche perché mi si presentava una situazione che non avevo mai provato prima: l’affrontare tornanti e rettilinei con pendenze proibitive e, per non bruciare i freni (nelle macchine d’allora, esclusivamente a tamburo), dovevo cimentarmi in un continuo scalare le marce per non raggiungere velocità da “formula uno”. Giunti a Milano, a casa, il sempre mio taciturno padre, rivolgendosi a me con un accenno di sorriso mi disse: “Si, sai guidare molto bene la macchina”! Non aggiungo altro.

Da quel giorno, ogni qualvolta si decideva di intraprendere un viaggio in macchina, il sottoscritto era destinato alla guida, con mia grande gioia, ma anche con un senso di grande responsabilità anche se negli anni ’50 il traffico non era nemmeno da paragonare a quello dei giorni nostri.


I primi approcci con l’automobile