Claudia era appoggiata con la spalla alla porta, mentre tra le sue dita la sigaretta si consumava lasciando appeso, ancora per poco, un lungo cilindro di cenere. Dietro di lei Giulia, seduta in cucina, infrangeva quel silenzio così denso girando meccanicamente il cucchiaino nel caffè e facendolo tintinnare sul fondo della tazzina ad ogni giro. Entrambe avevano lo sguardo fisso che celava chissà quale pensiero.
Claudia si mosse improvvisamente, distratta dal movimento del cilindro di cenere che cadendo si disfaceva sul pavimento.
Si girò per andare a spegnere la sigaretta nel posacenere in cucina e si rivolse alla sorella: “Giulia, allora che facciamo? Ormai è passato quasi un mese e tutti i giri da fare li abbiamo fatti, rimane solo da sistemare qui”. “Guarda Claudia, facciamo la settimana prossima va bene? Mi prendo un giorno di ferie e facciamo tutto, però la settimana prossima, ti prego!”, rispose Giulia portandosi meccanicamente la tazzina alla bocca per bere il caffè ormai freddo. Claudia si tirò indietro i capelli biondi e risistemò l’elastico che le teneva la lunga coda, poi si sistemò con gesti veloci il vestito e rispose “Vabbè facciamo la prossima settimana, tanto io devo fare un po’ di giri e in mezzo ci devo far entrare anche il parrucchiere tra oggi e domani, guarda come sono combinata!”
Giulia pensò che ci aveva messo poco a convincere la sorella, forse perché neanche lei aveva voglia di affrontare quell’ultima incombenza.
Sistemarono in fretta la cucina e uscirono dalla casa paterna chiudendo la porta a chiave. Si salutarono sulla porta con un abbraccio e si lasciarono ognuna per la sua vita. Tra una settimana si sarebbero ritrovate lì, nel doloroso tentativo di cancellare un po’ di sofferenza da quelle pareti.
La loro era una di quelle sfide perse in partenza, perché il dolore che in dieci anni si era stratificato in quella casa, aveva già segnato le loro anime e non c’era pulizia che potesse funzionare. Nonostante ciò sentivano di dover eliminare le tracce più visibili almeno di quegli ultimi giorni passati vicino al padre, malato di “non so che” da dieci anni. A lui era sempre piaciuto dare dei nomi particolari alle cose, alle persone ed anche alle malattie, così quando gli diagnosticarono l’Alzheimer, lui iniziò a chiamarlo “non so che” presagendo inconsciamente il senso di smarrimento, di confusione e sconvolgimento che quella malattia l’avrebbe condannato a vivere.
Quel lunedì mattina Claudia arrivò davanti la casa paterna puntuale come al solito e, come al solito, constatò che la sorella non era ancora arrivata.
Decise allora di aspettarla al bar di fronte, ordinò un cappuccino e si sedette, sfogliando senza alcun interesse il primo giornale che trovò sul tavolo. Dopo dieci minuti Giulia non si vedeva ancora, allora pagò e uscì fuori a fumare una sigaretta. Stava per chiamarla quando vide un’auto arrivare, fermarsi improvvisamente in mezzo ad un incrocio e poi ripartire sgommando per occupare un parcheggio alquanto fantasioso. Giulia scese ignorando le urla del conducente dell’auto dietro di lei, si diede un’occhiata intorno, scorse la sorella davanti al bar e le fece un cenno con la mano. Claudia la vide avvicinarsi mentre tentava contemporaneamente di parlare al telefono tenendolo stretto tra la spalla e l’orecchio, chiudere l’auto, mettersi una sigaretta in bocca con una mano e cercare l’accendino con l’altra.
Sorrise vedendola così e pensò a quanto somigliasse alla mamma, sempre indaffarata e sempre immersa in mille problemi, non tutti reali, ma sempre pronta a sostituirli con i problemi degli altri.
“Prendiamo un caffè?” disse Giulia mentre chiudeva la telefonata, baciava la sorella e si tirava sulla testa gli occhiali da sole. “Io ho già fatto, ma se vuoi ti faccio compagnia” rispose Claudia. Giulia decise che più tardi lo avrebbero preso insieme a casa.
A vederle insieme non era facile capire che fossero sorelle. Claudia, vicino alla quarantina, era alta, di carnagione chiara e con le forme sottili e spigolose; dava l’impressione di una persona scostante, ma bastava avvicinarla per intuire il calore di cui era capace. Giulia, di qualche anno più giovane, di calore ne lasciava una scia, qualsiasi cosa facesse. Era scura di carnagione e di capelli, non molto alta e dalle forme ben evidenti.
L’unica cosa che apparentemente avevano in comune era il colore degli occhi, verdi come quelli della madre.
Entrarono in casa, posarono le borse sopra il divano, poi si guardarono. “Ok allora, iniziamo?” fece Giulia; Claudia le rispose con un cenno della testa e insieme si diressero verso la porta di quello che era stato un locale di servizio, ma che per le esigenze dettate dalla malattia, era diventato la cameretta del padre. Loro due l’avevano sempre tenuta in ordine, tranne l’ultima settimana. I medici, dopo l’ultimo ricovero per una grave insufficienza renale, avevano consigliato a Claudia e Giulia di far trascorrere al padre gli ultimi giorni in un luogo tranquillo e, per quanto possibile, familiare anche se lui il senso di familiarità lo aveva smarrito da un po’.
Così decisero di riportarlo a casa, nella sua cameretta arredata con pochissime cose, quelle che dopo numerosi tentativi sembravano non creargli disagio: un letto, un comodino, un piccolo armadio quasi vuoto, un tavolino con sopra un blocco di carta e qualche penna, una mensola di legno con una quindicina di libri sopra. La tv l’avevano tolta da un pezzo, da quando aveva iniziato a causargli più turbamento che distrazione e così avevano fatto con lo specchio dopo che una mattina il padre era corso da Claudia e, dandole del lei, l’aveva implorata di far uscire l’intruso che era nella sua camera.
Aprirono la porta dando un’occhiata al da farsi.
C’era poca confusione, un letto disfatto, un mucchio di carte sparse tra il cestino ed il tavolo, qualche libro buttato accanto al letto, un odore aspro di alcool e medicine e un’aria quasi irrespirabile di chiuso e di malinconia.
Non c’era invece traccia di alcun ricordo, una foto, un soprammobile, un quadro o qualsiasi oggetto connesso con il passato. La cosa che aveva sempre tormentato Claudia e Giulia, senza mai il conforto della rassegnazione, era la completa scomparsa di ogni traccia del suo grande amore.
Così si ritrovarono sedute sul bordo del letto, appoggiate l’una alla spalla dell’altra con gli occhi umidi a parlare della mamma e del legame profondo che li legava.
Lo facevano spesso, anche da sole, e il loro ricordare era come vendicare la mamma, vittima di quell’infame rapina. Lei purtroppo era scomparsa fisicamente sei anni prima a causa di una malattia molto più carnivora di quella del marito. Il suo ricordo sembrava aver resistito nella mente del compagno solo due anni, poi il nulla. Mai più un accenno, un aneddoto, una frase in qualche modo riconducibile alla persona che aveva camminato con lui da poco più che adolescente.
“Ti ricordi quando litigavano? Te ne accorgevi subito quando avevano discusso, papà muto con la fronte aggrottata e i movimenti scattosi e bruschi, mamma che passava leggera come una farfalla dalle dure rimostranze rivolte a papà alle frasi sdolcinate rivolte ai nostri cani. Una volta papà mi confessò sorridendo – beati loro che gli tocca solo il miele! A me anche le punture purtroppo! -“ Giulia sorrise alle parole di Claudia e replicò:
“E perché quando a papà gli prendevano quelle botte di gelosia? Sembrava un adolescente alle prese con il primo amore!”
Claudia si alzò improvvisamente e aprì l’armadio. All’interno c’era solo un pigiama, una piccola scorta di mutande e calze, un paio di pantofole, uno di scarpe da ginnastica e una tuta. Al padre non erano mai piaciute le tute, non ci si vedeva proprio. Per più di trent’anni aveva lavorato in pantaloni e camicia e quando nel fine settimana si decideva ad indossare una tuta, non riusciva neanche a guardarsi allo specchio, ma cedeva esausto alle insistenze della moglie affidandosi esclusivamente al suo compiacimento.
Da qualche anno però, suo malgrado, la tuta era il capo che indossava normalmente.
Precisamente dal giorno in cui, ridendo a crepapelle, era andato a chiedere aiuto a Giulia con i pantaloni indossati al contrario e la cintura in mano perché non riusciva proprio a capire come comporre quel puzzle. Giulia rise con lui a lungo, poi lo convinse a tirare fuori quella tuta grigia che aveva acquistato tanti anni fa per far contenta la mamma. In occasioni del genere le figlie non esitavano a tentare di far riemergere in lui almeno un vago ricordo della moglie, ma lui ogni volta sembrava assentarsi, impermeabile a qualsiasi goccia di passato.
Tutte le sue care abitudini erano scomparse. La malattia, come uno tsunami nel suo ritrarsi, l’aveva svuotato, aveva spazzato via ogni piacevole consuetudine, ogni rito tranne uno: la scrittura.
Aveva sempre amato leggere e scrivere, ma da quando aveva smesso di lavorare, ogni sera puntualmente si alzava da tavola, si piazzava al pc portatile e per almeno un’ora era come se non ci fosse. Si perdeva tra le sue storie e le storie di altri e certe volte sembrava così assorto che la moglie evitava di disturbarlo. Lui rimaneva lì, a bere un caffè nel bar di quella nebbiosa stazione di provincia, oppure a passeggiare in una quelle sere infinite di una bella estate, per ore e ore. Il “non so che” gli aveva tolto l’uso del pc, troppo complicato, ma gli aveva lasciato l’uso della penna sulla carta, e questo gli bastava, almeno a vedere la grande quantità di fogli sparsi per la cameretta.
Claudia e Giulia guardavano quei fogli con ansia.
E se avessero scoperto qualcosa che non sapevano del padre? E se leggere quello che c’era scritto avesse in qualche modo violato la sua intimità? Queste erano le domande che si potevano leggere negli occhi delle due sorelle e nella loro indecisione, ma ce n’era una, nel loro cuore, che le spingeva a proseguire. E se avessero finalmente scoperto da quei fogli che lui non l’aveva dimenticata? Forse tra quei fogli, scritti negli ultimi giorni della sua vita, avrebbero ritrovato traccia di quell’amore che un tempo era stato così evidente.
Ci misero poco tempo a rassettare il resto di quella camera così spoglia, poi si dedicarono subito a raccogliere i fogli, compresi quelli che giacevano appollottolati nel cestino. Li sistemarono sul tavolo, si sedettero sul letto e un foglio alla volta iniziarono la loro ricerca.
Dopo solo cinque minuti e la metà dei fogli raccolti, la speranza aveva lasciato il posto alla delusione, almeno per una delle due.
Scarabocchi, frasi sconnesse e interrotte, intere righe cancellate con talmente tanta forza da bucare il foglio e rendere le parole irriconoscibili. Giulia ad un certo punto sbottò verso la sorella che continuava metodica ad esaminare ogni segno su quei fogli e ad assegnare ad ognuno chissà quale significato:” Allora lo vuoi capire che non c’è niente? Niente! Non c’è niente da trovare e niente da interpretare, maledetta romantica che non sei altro! Quella cazzo di malattia non ha fatto prigionieri, lo vuoi capire?” e scoppiando a piangere abbracciò la sorella.
Per qualche minuto l’una bagnò di lacrime la spalla dell’altra, poi Claudia riprese in mano i fogli, si asciugò il viso e continuò come se niente fosse.
Giulia invece decise che era ora di quel caffè che non aveva preso al bar. Mentre Giulia preparava il caffè in cucina, lei li girò e rigirò nelle sue mani uno ad uno, li alzò per guardarli in controluce, li buttò per poi riprenderli col sospetto che le fosse sfuggito qualcosa, ma alla fine si arrese all’evidenza: su quei fogli non c’era niente.
“Claudia è pronto il caffè, che fai la pianti e vieni qua?” Disse Giulia in tono quasi aspro nei confronti della sorella. Non sentendo risposta andò da lei, le tolse delicatamente i fogli dalle mani, la prese per un braccio e le disse:” Dai sorellina, non vedi che non c’è niente! Ora ci prendiamo un caffè, ci fumiamo una sigaretta e poi ce ne andiamo a pranzo insieme, ti va?” Claudia seguì con la testa quei fogli che le venivano sfilati dalle mani fino ad incontrare lo sguardo della sorella e in quel momento si arrese:”
E va bene. Prima però buttiamo tutta questa carta.” Andò in cucina, prese un sacco di plastica e lo riempì di tutti quei fogli inutili, poi lo poggiò vicino alla porta insieme ad un altro sacco con pochi capi da portare in lavanderia.
Giulia era già in cucina a versare il caffè nelle tazzine e borbottava “Lo sapevo che andava a finire così! Lo-sa-pe-vo. A che è servito? A niente, solo a farsi il sangue amaro.
Era meglio chiamare qualcuno che ripulisse tutto e amen. Era…” “Giulia! Vieni, corri!” interruppe i suoi mugugni la sorella. “Guarda, questi erano sotto il blocco! L’avevamo lasciato sul tavolo” fece Claudia mostrando alla sorella dei fogli parzialmente scritti. “Sì vabbè! Però adesso ci prendiamo il caffè, eh! Poi guardiamo anche quelli” fece Giulia come se parlasse ad una matta. Poi porse il caffè alla sorella e bevve il suo, si accese una sigaretta e ne accese una a Claudia. Si sedettero di nuovo sul letto con quei fogli sulle ginocchia.
Erano quattro fogli in tutto, ma solo tre erano scritti con una calligrafia quasi indecifrabile e pieni di correzioni, ripetizioni, scarabocchi. Li guardarono sommariamente e capirono che si trattava di racconti, nessuno dei quali arrivato alla fine, interrotti improvvisamente.
In ognuno dei racconti, c’era una frase o un paragrafo cerchiato con la penna.
Presero il primo, iniziarono a leggere e capirono che si trattava della storia di un reduce della seconda guerra mondiale che, tornato a casa, non riusciva a rassegnarsi ai soprusi e alle violenze che la moglie aveva dovuto subire in sua assenza. Era lungo circa tre quarti di foglio e si interrompeva nel momento in cui il protagonista, davanti alla finestra della cucina aperta sulla vallata, stava per farla finita sparandosi un colpo di pistola. Il testo cerchiato con la penna era la descrizione del loro incontro.
Passarono al secondo foglio. Era il racconto di una missione di soldati intergalattici che dovevano salvare un intero pianeta dall’oppressione di un gruppo di spietati sfruttatori. Il pianeta era quello dove era nata la compagna del comandante e dove lei aveva deciso di rimanere mettendosi a capo di un gruppo di ribelli. Si interrompeva nel punto in cui il comandante parla di lei con un suo compagno e il cerchio era segnato proprio su quest’ultima parte.
Il terzo foglio conteneva il racconto di un cavaliere e di una dama rapita da un mostro di nebbia. La parte cerchiata era quella in cui descriveva come il cavaliere l’aveva ritrovata.
Il quarto foglio era in bianco.
Claudia e Giulia si guardarono per un attimo, poi presero quel quarto foglio rimasto in bianco e iniziarono a trascrivere solo le parti cerchiate con la penna.
I due cuori si incontrarono quando erano poco più che bambini, ma loro se ne accorsero solo molti anni dopo, quando insieme ai cuori si incontrarono anche i corpi e le menti, fusi insieme in una lega indistruttibile. Il loro amore fu grande, uno di quelli, però, che non fanno rumore, non urlano, non si compiacciono della loro statura. Fu un amore da tutti i giorni, di quelli che non hanno fretta, perché sanno di confrontarsi con l’eternità.
E’ sempre stata così, battagliera e sempre pronta a replicare, chi ha avuto a che fare con lei ne sa qualcosa. Però è fantastica, ha la vita a fior di pelle. Basta poco e le sprizza fuori incontenibile. Non mi stanco mai di guardarla e ogni volta è come se lo facessi la prima volta. E’ come avere un’amnesia dopo aver assistito allo spettacolo più bello della tua vita ed ogni volta riviverlo insieme allo stupore per le emozioni, le musiche, i dettagli, tutto.
Lui partì immediatamente per ritrovarla, armato solo del suo cavallo e del suo amore. Dopo molti giorni e dopo aver affrontato difficoltà di ogni natura, trovò il mostro che l’aveva rapita quella notte. Entrò in quella nebbia densa e fu lì che la ritrovò, ancora impaurita. Si persero insieme in un abbraccio che bastava a se stesso e rimasero lì in quella nebbia che li nascose per sempre al mondo.
Bellissimo racconto. Grazie Giorgio.
Grazie a voi! Condividere è sempre un piacere.