I beni immateriali: la concezione di Eco sulla relazione lettore-letteratura

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“I libri sono la chiave di accesso per arricchire la nostra esistenza […]. Il lettore impegnato collabora con l’autore […]. Più che mai abbiamo bisogno di libri, ma anche i libri hanno bisogno di noi”

Così George Steiner descrive l’interdipendenza libro-lettore nel suo saggio “I libri hanno bisogno di noi”. Sono ovviamente palesi le motivazioni per cui l’umanità ha un forte bisogno di leggere (anche se la maggior parte di essa non comprende, o non vuole comprendere o peggio ancora, non sente affatto tale necessità). I mondi a cui ci approcciamo ogni qual volta che trasformiamo nelle nostre menti quelle combinazioni di simboli stampati in conoscenza, è qualcosa che non si può trovare in nessun altro modo.

Una mera trasmissione orale, a parere di molti, è qualcosa già predestinata a una morte lenta, cosa che non accade con la scrittura la quale, non a caso, viene anche definita “memoria collettiva permanente”.

Ed è dall’aggettivo collettiva, che parte il discorso sulla necessità che i testi hanno bisogno dei lettori. Può essere perfettamente paragonabile ad un osservatore di fronte ad un quadro di Gustav Klimt. Si sa per certo nell’ambito della storia dell’arte, che il pittore austriaco non diede mai un’interpretazione (orale o scritta che sia) ai suoi dipinti, amava infatti affermare che se lo si volesse conoscere per com’era, bastava solamente osservare con profonda meditazione le sue opere, li dentro c’era tutto lui. È per cui questo il modo migliore per rendere la letteratura il più grande dei beni comuni.

Il prof. Umberto Eco, venuto tragicamente a mancare recentemente, parafrasando un motto di origine latina, parla di “Lector in fabula” (omonimo titolo del suo saggio edito da Bompiani nel 1979), la cui traduzione italiana sta a “lettore nel testo”.

Con tale affermazione Eco vuole sottolineare l’importanza centrale del ruolo partecipativo che ha un lettore di fronte a un testo. Quest’ultimo è già di per sé, facendo dei paragoni con il mondo dell’economia, un’industria di conoscenza che si quota nell’immensa borsa dei lettori. Eco, teorizzando la figura del “lettore modello”, sostiene come bisogni scindere, ogni qual volta che si affronti un qualsiasi libro, “interpretazione” e “uso”. La prima, secondo Eco, deve formarsi man mano che i simboli diventano conoscenza, e trovare conferma al termine di essi. In questo si può dire che il professore di Alessandria limiti per alcuni versi la fantasia del lettore. Il secondo poi risulterà in definitiva relativo e arbitrario, dunque, sintetizzato in una parola, “pirandelliano”.

Fu appunto Lamberto Laudisi, il personaggio del commediografo siciliano Luigi Pirandello, a dire, nella commedia “Così è… se vi pare” <<[…] È sicura anche lei di toccarmi come come mi vede ? Non può dubitare di lei. Ma per carità, non dica a suo marito, né a mia sorella, né a mia nipote[…] come mi vede, perché […] altrimenti le diranno che lei s’inganna. Mentre lei non s’inganna affatto ! Perché io sono realmente come mi vede lei ! Ma ciò non toglie che io sia anche realmente come mi vede suo marito, mia sorella, mia nipote […] che anche loro non si ingannano affatto !>> Se immaginiamo per un momento che in questa breve battuta non sia Laudesi a parlare, ma la letteratura stessa, comprenderemo più facilmente il messaggio che voleva trasmettere Eco, e di conseguenza la metafora economica proposta in precedenza.

Tutti i libri acquistano valore ogni qual volta che vengono letti e in seguito interpretati.

Ogni “uso” di un libro è come un tot. di azioni, le quali, maggiori sono, maggiori saranno per quel libro le chiusure con segno più . Come noi ci ingigantiamo leggendo sempre più, i libri si ingigantiscono acquisendo innumerevoli “usi” tratti dalle nostre precedenti interpretazioni. Quindi la non lettura è uguale alla mancanza di “interpretazioni” e “usi”, ergo al lento decesso nel dimenticatoio, come i libri della chiesa sconsacrata di S. Maria Liberale di Miragno, sede delle memorie del Mattia Pascal. “Il nome della rosa”, primo romanzo di Umberto Eco pubblicato nel 1980, sintetizza in chiave narrativa l’importanza di queste “interpretazioni”, di come mutino l’animo degli uomini. Tutta la storia è incentrata su un libro non pervenuto neanche ai giorni nostri, trattasi del secondo libro della “Poetica” di Aristotele, che trattava il tema della commedia.

Per Guglielmo di Baskerville, ogni libro ha un’importanza e una storia che va difesa. Tanto che rischierà la vita nella biblioteca-labirinto del monastero dove è ambientata la storia, data alle fiamme dall’abate Bernardo Gui (che morirà nell’incendio), il quale ha una visione completamente diversa da quella di Guglielmo. Egli considera quel libro demoniaco e anticristiano. Pensa che se venisse divulgato quell’unica copia presente nel monastero (scritta da Aristotele stesso), l’umanità verrebbe senza accorgersene, privata della sua moralità e del timore di Dio, tanto che alla fine riderà anche di lui. Pur di far in modo che questo non accada, mangerà le pagine avvelenate del libro, e poi gli darà fuoco. Guglielmo che salva i pochi libri che entravano nelle sue braccia, è l’immagine metaforica di quel che per Eco erano i libri, l’immortalità assoluta, ma un po’ particolare.

« Chi non legge a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito. Perché la lettura è un’immortalità all’indietro. »