La fortuna è stata quella salita fra i carruggi che rallentava il mio pedalare. La bici sgangherata, regalo di papà, faticava, nonostante i mie sforzi, a prendere velocità. Allora scendevo e continuavo a piedi. Lo sguardo rivolto verso il cielo, catturava anche i balconcini dei palazzi, distanti fra di loro una stretta di mano. Fu proprio su uno di quelli che la vidi. Anzi, la scorsi. Una volta erano i suoi capelli scuri raccolti in una treccia, una volta una mano, una volta un gomito, sul quale notai addirittura una piccola crosta che vi si era formata, forse una caduta. La sua risata però, la conoscevo bene. Una risata gialla. Calda e accogliente. E speravo sempre che a strappargliela fosse un’amica o un parente, e non un fidanzato, che già aveva la fortuna di conoscere e accarezzare quel volto, che io potevo solo immaginare.
Partivo sempre con il buio. Il gozzo di Beppin era il più robusto. Ero il suo aiutante, un giorno sarei diventato un pescatore anch’io. Il mare era il mio rifugio, il mio confidente e unico consigliere. Ascoltavo la sua voce profonda e lontana e immaginavo il futuro che mi prospettava. Le lunghe notti che passavo con lui, mi lasciavano addosso il profumo delle onde dispettose, ma soprattutto il tempo per sognare. L’alba invece, che schiarendo l’orizzonte sbadigliava pigra su Genova, era il mio faro, il segnale che non mancava molto al mio incontro quotidiano. Chissà oggi, quale frammento di lei, avrebbe illuminato il sole e allietato di nuovo i miei occhi, che ridotti a due fessure, scrutavano la costa, per mettere a fuoco la distanza che ci separava.
Una volta a terra, Beppin, che aveva letto la mia anima, mi lasciava andare via subito. Correvo verso la mia bici, e lasciandomi la salsedine alle spalle, sfrecciavo fra i vicoli della mia città, per arrivare trafelato all’imbocco della sua via.
Le mani tagliuzzate dalle lenze, stringevano forte il manubrio e sudavano. Le gambe, guidate dal mio cuore impazzito, una volta imboccata la salita, camminavano veloci per raggiungere subito la meta. Avevo deciso che oggi le avrei rivolto la parola. Volevo sapere il suo nome, quali lettere lo componevano. Usare poi quelle stesse lettere per dedicarle una poesia.
Perso nei pensieri non mi accorsi di essere arrivato sotto il suo balcone. Un silenzio innaturale avvolgeva quello squarcio di strada ormai famigliare.
Alzai gli occhi, che presi dallo sconforto, confermarono quello che già sapevo. Il balconcino era adorno di graziosi fiocchi neri e un vaso con dentro un piccolo girasole, aveva preso il suo posto. Una vecchina appoggiata all’uscio, percependo il mio dolore, mi disse solo “Miriam”
Ero arrivato tardi.