Da qualsiasi parte guardasse la cosa, la situazione appariva comunque senza via d’uscita.

L’idea della visita in banca era stata di sua madre, che ce lo aveva spinto. Pesante situazione debitoria. Già situazione debitoria significava avere un più di un debito da pagare; pesante voleva dire essere ad un passo dall’abisso. Andrea immaginava questo sacco di sassi, pesantissimi, scuri e di varie forme, pronti a trascinarlo giù nel fondo del mare. Lui, che il mare lo aveva sempre amato moltissimo, quando lo portavano, da piccolo, a Ostia. Ora non riusciva più a pensare a nessuna immagine di acqua, perché era come il richiamo di una sirena nera, che gli cantava una canzone angosciante.

Pesante situazione debitoria.

Aveva provato a parlarne con sua madre, lei si era chiusa nel suo mutismo, come una lumaca che rientra nella sua casetta e non vuol saperne di uscire. Mentre lui cercava di parlarle, spiegarle, farle capire, in modo pacato, senza allarmismi, lui che allarmato lo era assai, come fosse la cosa, quali decisioni avrebbero dovuto prendere, lei si era messa a girare per la casa, parlando da sola, della spesa che avrebbe fatto, del vestito rosso che aveva visto: certo, avrebbe dovuto perdere ancora qualche chilo ma era questione di poco e ci sarebbe entrata.

Come una bambina piccola si raccontava le storie per farsi coraggio e compagnia mentre, intorno, il suo mondo, cadeva a pezzi.

In quel momento Andrea capì, se mai ce ne fosse stato bisogno, di essere solo, completamente e definitivamente solo, di fronte a quella voragine che suo padre, con scelte scellerate aveva creato.

Quando sua madre e suo padre si erano sposati, il destino sembrava avere messo insieme due anime tranquille destinate alla serenità. Lui era architetto in un grosso studio della capitale, lei, impiegata contabile, aveva il suo lavoro stabile in una piccola fabbrica di scatole. Due persone, col senso della misura, aveva sempre pensato Andrea, appena era stato di capire che cosa significasse ”avere senso della misura”. Misurati nelle parole, nei gesti, perfino nella scelta degli abiti, sempre attenti e premurosi con lui.

Una premura che non sconfinava mai, però, anche in un abbraccio spontaneo, un bacio inaspettato, un’ondata di affetto travolgente.

Di domenica pomeriggio, per i viali del centro di Roma, camminavano affiancati,tenendo lui nel mezzo, per mano; stesso passo, medesima cadenza, rallentando se lo vedevano in difficoltà, rialzandolo se cadeva. Suo padre lo rimetteva in piedi, sua madre gli spolverava i pantaloni e la passeggiata riprendeva.

Chiacchieravano, spesso, del più e del meno, del lavoro, degli amici, dei pettegolezzi dello studio d’architettura, degli amori presunti, di quelli che nascevano, di quelli che stavano finendo, di quelli che non sarebbero mai nati. Andrea li ascoltava, non capiva bene tutto ma gli faceva piacere essere presente,lì con loro a partecipare a quei momenti di vita da adulti. Si sentiva parte di una piccola famiglia che faceva i suoi passi verso quella che immaginava sarebbe stata quella “vita tranquilla” di cui tutti parlavano.

Che cosa si intendesse poi con quell’espressione, se lo era chiesto fin da ragazzo.

Aveva collezionato, nel tempo, risposte diverse. Per alcuni significava avere un posto di lavoro sicuro e ben retribuito, per altri una vita familiare serena, per altri ancora fare quello che più piaceva loro. Per suo zio Marco, ad esempio, avere una “vita tranquilla” voleva dire lavorare come autista di autobus a turno, per tutta la settimana; la domenica andare allo stadio a vedere la Lazio e concedersi lunghi sonnellini davanti alla televisione, finestra aperta e quel leggero venticello che concilia la dormita. Per almeno un paio delle fidanzate che aveva avuto, questa cosa della “vita tranquilla” coincideva con l’idea di sposarsi e farsi una famiglia.

Alcuni dei suoi amici parlavano di “vita tranquilla” come dell’esatto contrario della “bella vita”: sembrava che finita l’una, iniziasse l’altra.

Andrea non aveva mai saputo dare una definizione e non voleva darla, vivere, per lui significava godere appieno di ogni giornata, per strana che fosse, il cuore. E il suo cuore si sentiva al sicuro, quando, da piccolo coglierne le sfumature, chiare e scure, portando sempre avanti, camminava accanto ai suoi genitori. Gli sembrava che la vita sarebbe stata sempre così, semplice e rassicurante, come una passeggiata per i viali romani.

Non avrebbe saputo dire, con esattezza, il momento in cui le cose cambiarono.

Fu un cambiamento graduale, o almeno lui lo percepì tale. Fu come l’arrivo di un temporale, annunciato da un’aria che, mentre passeggi sulla riva del mare, increspa le nuvole e ti centra fredda e veloce, consegnandoti un brivido improvviso e la pelle d’oca. Una sera suo padre rientrò più tardi del solito dallo studio; era sempre piuttosto puntuale e sua madre aveva già guardato fuori dalla finestra tre o quattro volte, per vedere la sagoma dell’auto che arrivava. Rientrò che era rilassato e di buon umore:

– Dove sei stato, caro?
– Mi sono fermato con un nuovo collega, in un bar, a bere qualcosa.
– Un nuovo collega…non me ne avevi parlato, è arrivato da poco?
– Sì è di Torino, abbiamo fatto due parole, sai sta cercando di ambientarsi, è molto simpatico.
– Bene, me lo farai conoscere allora, prima o poi.
– Certo cara certo..

La cena si svolse tranquilla e la serata fu senza scossoni, tra i ripetuti passaggi dell’arrosto di sua madre e il sugo che finiva sempre troppo presto.

Nelle settimane successive la regolare sosta del padre, al bar, in compagnia del suo nuovo collega, diventò un fatto certo.

All’inizio, una sera alla settimana, poi, due, poi tre e dopo tre mesi da quell’incontro, ogni sera. Le prime volte, si trattava di piccoli ritardi, che non andavano ad intaccare la sostanza delle abitudini della famiglia; una minestra da riscaldare, la tavola da preparare più tardi del solito, la perdita di quei piccoli spazi per potersi raccontare le cose della giornata. Le serate fuori aumentarono e i ritardi divennero una costante: da un’ora di ritardo all’intera serata. Sua madre, che si autodefiniva una donna mite, seguendo l’esempio di generazioni di donne alle quali era stato raccomandato di essere miti, non faceva troppe domande, non si lamentava, non criticava il comportamento del marito.

Lasciava un piatto sulla tovaglia e andava a dormire.

Alle ingenue domande del figlio, rispondeva sostenendo che papà passava un periodo stressante al lavoro, che aveva bisogno di distrarsi, che fra un po’ di tempo le cose sarebbero tornate come prima. Forse ci credeva veramente, pensava Andrea, forse non sapeva darsi altre spiegazioni, forse voleva rassicurarsi che, davvero, non esisteva alcun problema.
Qualcosa c’era, invece, e lui lo per sentiva chiaramente. Era qualcosa di impercettibile, un velo che aveva avvolto, all’improvviso, suo padre; gli sembrava che nessuno lo vedesse con chiarezza, ma lui lo avvertiva. Un senso di inquietudine lo aveva catturato e teneva in scacco quell’uomo che lui aveva sempre guardato con affetto e ammirazione.

Suo padre si alzava, faceva colazione, andava al lavoro, tornava dal lavoro tardi e scompariva a letto.

Il sabato facevano le spese e la domenica c’era ancora la loro passeggiata, ma di suo padre, gli restava solo la sua mano, che era lui a tenere stretta e non il contrario. L’uomo partecipava distrattamente ai discorsi della moglie, che, dal canto suo, riteneva che le questioni che gli proponeva fossero di poco conto, per lui che era architetto e aveva tanti pensieri e responsabilità, nel suo lavoro. Perciò, lei proseguiva, reggendo le fila di una conversazione vuota, preoccupandosi di fare un po’ di rumore, di creare un senso di allegria, che suonava incompleto e senza senso. Manteneva il suo ruolo, convinta che così si reggessero la fila di una famiglia, che fosse la donna a dover fare sempre da sponda perché si trattava di onde piccole e dispettose.

Non si rendeva conto che quello che si stava rovesciando sulle loro esistenze era un maremoto; lei l’aveva scambiato per un’increspatura senza importanza.

Vide il marito diventare sempre più assente e distratto, poi impreciso nel fare le cose, sfuggente nel riportare i fatti della giornata, come di solito faceva.
– Come è andata oggi, al lavoro?
– Solito.
– Nessuna novità… qualche pettegolezzo?
– Ma che vuoi che mi importi delle chiacchiere degli altri?

Il fatto era che, a suo padre, oramai, non importava più di nulla.

Anzi, di una cosa sì. Le sue serata, dopo il lavoro, col suo collega, che oramai, pensava Andrea, dopo un anno, doveva essersi ambientato; di quelle serate gli importava e molto. Non mancava mai di fermarsi, non c’era verso di farlo tornare subito a casa, senza quella sosta.

I fine settimana divennero pesanti, vissuti sempre sul filo di una elettricità che si vedeva chiaramente. Era come se una energia disturbante e discontinua attraversasse il corpo e la mente di suo padre. Se camminava aveva un passo sempre sbagliato, o troppo veloce o troppo lento, sempre fuori tempo, rispetto a quello di Andrea e di sua madre. Se si fermavano a mangiare un gelato, il suo sguardo si spostava incessantemente sulle cose e sulle persone, stessa espressione superficiale, mai veramente interessata, mai partecipe alla realtà di quel momento. Anche l’infelicità lo annoiava.

La morte della nonna, sua madre, lo lasciò indifferente.

Accolse la notizia dalla moglie che, lacrime agli occhi, glielo disse, una sera che lo aveva aspettato, al rientro. Era tardissimo e lei era seduto sul divano, rigida, fazzoletto in mano. Andrea, seduto in camera sua, per terra, ai piedi del suo letto, teneva appena aperta la porta che dava sul salotto da cui filtrava la luce tenue della lampada a stelo che la madre aveva accesa. Sentì il rientro del padre, la porta che fece rumore, come sfuggita ad una mano che, nell’intenzione, voleva accompagnarla per non fare rumore.

– Cosa fai ancora in piedi?
– Ti aspettavo.
– Beh.. potevi andare a dormire, sai che faccio tardi..
– E’ morta tua madre.
– Quando è successo?
– Stasera all’improvviso.. è stata molto male, ultimamente.
– Sì.. era un po’ che non la vedevo.. non ho mai tempo.
– Aveva chiesto di te ogni giorno..
– Sono stato preso dal lavoro, comunque adesso farò tutte le cose che servono..il funerale..avvisare i parenti…

– Adesso non ha più bisogno di niente, solo di una bara.

La voce di sua madre aveva una sfumatura metallica, non faceva pensare ad altro che al rumore di un pezzo di ferro che sfrega contro un altro pezzo di ferro. Un suono stridente e freddo. Non riusciva a vedere lo sguardo, dal suo angolo nascosto, ma immaginava che il suo fosse uno sguardo di polvere. Suo padre era ammutolito, rifugiato in un silenzio vigliacco e protettivo, sua madre proseguì, elencandogli tutte le cose che non aveva fatto, alle quali non era stato presente, di cui non si era minimamente occupato, in quegli ultimi anni.

Era un elenco asettico, senza toni di rancore, preciso e dettagliato; da brava contabile quale era gli presentava il conto delle sue assenze.

Con lo stesso tono, gli disse anche che da quella sera lui avrebbe dormito sul divano. Suo padre andò in camera, prese il cuscino e una coperta e si sistemò sul divano; sua madre gli diede il tempo di prendere quelle poche cose e chiuse la porta della camera. Andrea sentì il silenzio, fortissimo. Capì che da quel momento sarebbe stato così per sempre.

Gli anni dell’adolescenza arrivano e portarono ad Andrea ormoni impazziti da dover gestire anche nelle ore di scuola e la libertà di poter uscire da una casa, in cui vagavano due presenze ormai del tutto estranee l’una all’altra. Si trattava di una estraneità civile. Gli oggetti la raccontavano. La casa era quasi sempre in ordine. Lavorando entrambi, uscivano al mattino, mettendo a posto tavolo e vestiti, rientravano alla sera e ripetevano gli stessi gesti. Durante il fine settimana, Andrea usciva con gli amici, non sapeva come trascorressero il tempo, sembrava che uscissero con amici, a perpetuare il rituale, ormai vuoto e quasi ossessivo della “vita tranquilla”.

Non sembrava avessero problemi economici, qualche piccola rinuncia c’era da fare ogni tanto ma nulla di preoccupante.

Sua madre non gestiva le economie della famiglia, le aveva affidate, inspiegabilmente, al marito. Lui, l’uomo di casa, l’architetto aveva il compito di gestire le entrate e le uscite, rimanendo nei binari dell’oculatezza.

Tutto si sgretolò quando, quel pomeriggio, si era presentato alla porta l’ufficiale giudiziario, con un documento in mano e con l’ordine di portare via tutti i mobili e far sgomberare la casa. Sua madre si sentì male, Andrea fu veloce nel sostenerla; sarebbe caduta per terra. La mise a stendere sul divano e cercò di capire dall’uomo che cosa fosse quella storia assurda.

L’uomo gli spiegò che suo padre era, da tempo, pieno di debiti, che aveva richiesto prestiti ovunque, che aveva messo un’ipoteca sulla casa e che lui aveva l’ordine di requisire tutto il mobilio e di invitarli a lasciare libera la casa, nel giro di qualche giorno. Andrea si sentiva dentro ad un cortometraggio surreale, di quelli che andava a vedere con qualche ragazza su cui voleva far colpo, dandosi un’aria vagamente intellettuale. Sentiva il suo corpo come non suo, le braccia pesanti, le mani freddissime: si sentiva avvolto dentro alla tela di un grosso ragno, incapace di muoversi, mentre la bestiola si avvicinava.

L’uomo gli parlava di grossi debiti di gioco che suo padre aveva accumulato in anni di frequentazioni di locali, di bevute offerte agli amici, di assenze e infine della perdita del lavoro, che risaliva a qualche mese prima.

Andrea sentiva i discorsi, le parole gli arrivavano come sassate, quando ne decifrava il senso, lo colpivano in faccia, lasciandogli lividi che non si vedevano; poi, guardò sua madre, distrutta, che guardava assente una cartolina di Ostia, comprata anni prima. Si rese conto di dover razionalizzare. Si accordò con l’ufficiale, che si era mostrato una persona ragionevole e forse anche abituata al dramma di quelle situazioni, per trovarsi, il mattino seguente, presso l’ufficio competente e cercare di capire come arginare la slavina che li stava travolgendo. Uscì di casa.

Aveva bisogno di respirare, di sentire l’aria che gli entrava dentro e smuoveva quel corpo che era diventato di marmo per lo spavento.

Era terrore puro, quello che lo percorreva, lo sentiva come fosse un serpente che gli strisciava addosso, schifoso e viscido. La paura. Di non farcela, di crollare ad ogni passo, di essere talmente travolto dall’impeto della situazione da perdere i sensi. Camminò a lungo, le strade, sempre quelle che conosceva, pensava e ripensava a come fare per uscire da quell’incubo. Cercare suo padre non sarebbe servito, non provava nulla verso quell’uomo ormai estraneo alla vita e alle responsabilità verso la famiglia.

Smettere di studiare e cercarsi un lavoro, ma quanto tempo sarebbe servito per colmare quelle falle economiche enormi?

Arrivò senza accorgersene alla stazione e buttò uno sguardo ai senzatetto che occupavano i posti lungo le pareti esterne dell’edificio. Gente povera, gelosa dei propri stracci, dei cartoni che usava per coprirsi, gli sguardi concentrati su di un punto fisso, immobile. Sguardi che non cercavano né contatto, né pietà; non avevano richieste né parole da dire. La speranza che aveva dato loro parole e preghiere era finita; la disperazione non aveva più la voglia e l’energia di parlare. Mescolati a quella gente, alcuni spacciatori, sguardo allucinato, da lupi, occhi affamati in cerca di prede. In un attimo si trovò nell’angolo buio della stazione, circondato da tre uomini, poche frasi in una lingua che non capiva, sentì mani addosso che lo bloccavano, gli presero il portafoglio, era vuoto.

Tentò di spiegare, di dire, la voce non usciva, era in preda al panico.

Pochi secondi, uno degli uomini fece uscire una lama dagli stivali, sentì una fitta fortissima, si sentì debole, le gambe che non lo reggevano. Crollò a terra, vicino ad un barbone sdraiato sul fianco che nemmeno si girò. Rivide i viali di Roma, sentì per un attimo il sole caldo del pomeriggio, gli occhi di sua madre, la stretta forte di suo padre.

Poi, intorno, solo il rumore degli stormi di uccelli che abitavano i grandi alberi della stazione di Roma.

1 COMMENT