Oggetto centrale delle materie umanistiche è l’uomo, colui che ha reso tutto più inconcepibile, straordinario e incessantemente complicato.
Essere mortale e in continuo sviluppo, cattura l’attenzione delle menti più curiose sin dall’inizio dei tempi, e nascono i più bizzarri interrogativi, i più tormentosi dubbi e soprattutto l’autocoscienza, fenomeno di stabilizzazione personale e globale che tratteggia la storia della moderna comprensione degli atteggiamenti umani.
Ma com’è possibile che nonostante la conoscenza di se stesso nella stragrande maggioranza dei suoi aspetti, l’uomo non riesca a controllarsi, a capirsi, e ad interpretare ciò che gli succede?
Qual è l’origine? qual è la causa? come procede la sintesi? Perché accade?
Siamo individui intelligenti, animati, selvaggi e allo stesso tempo civilizzati, racchiudiamo in noi una molteplicità di aspetti eppure quando si tratta di comprenderci nel senso più profondo, morale e filosofico del significato raggiungiamo il capolinea della nostra natura più recondita.
L’inconoscibile, l’universo infinito e inesplorabile, il sole inavvicinabile, la natura indomabile, come crediamo di poterli raggiungere se nemmeno acquistiamo la piena e soddisfacente conoscenza di noi stessi, come crediamo di poter attingere alla sbalorditiva grandezza del macrocosmo quando noi microrganismi impercettibili e incomparabili ad esso non siamo in grado di individuarci nell’interiorità della nostra psiche.
Alcuni filosofi ritenevano che in questo pezzo mancante fosse racchiuso tutto il senso dell’esistenza, scale di una casa che continuiamo a salire senza una porta alla fine, non possiamo sapere tutto, specialmente su di noi, siamo troppo intelligenti per giungere ad un risultato finale, siamo abbastanza consapevoli che conoscerci troppo ci porterebbe all’autodistruzione e obiettivamente questa condizione ci permette l’auto sviluppo e l’autoconservazione.
Non si può pensare ad un mondo in cui tutto si può conoscere, vi è incisa nella nostra natura un incontenibile inclinazione a saperne sempre di più, a volere sempre di più, e una volta che otteniamo ciò che ricerchiamo non riusciamo a farcelo bastare, riguardiamo indietro e miriamo più avanti, in uno stato di inappagata volontà di conquista.
La noiosa verità è che si vuole sempre di più, siamo sequenze esistenziali dominate da due ineffabile principi di nostalgia e ingordigia, affamate come miseri corpi denutriti, mai una volta sazie, coscienti di banchettare ad un ingente convivio.
E anche quando otteniamo ciò a cui tumultuosamente ardevamo, e quando raggiungiamo ciò che la speranza non ha mai seppellito, consapevoli o meno, consumiamo con voracità il nostro pasto e lasciamo solo le briciole nel piatto; e desideriamo ancora e ancora e con le nostre mani spesse cerchiamo di afferrare quei minuscoli rimasugli, tentiamo di carpire quella sfuggente delizia rimanente, e ci rendiamo conto che nella fretta del consumo non ci siamo goduti neanche un sapore.
Così il processo di conoscenza umana, che per meritò della sua interminabile fame, ci rende in grado di conquistare sempre più pezzi di un puzzle senza confini; ma forse nella fretta della ricerca non vediamo ciò che sta rappresentando pezzo per pezzo, forse non siamo in grado di cogliere, o di assemblare correttamente i pezzi, e allora questa faticosa evoluzione, questa proporzionata capacità conoscitiva cosa ci lascia, come ci aiuta, come ci permette di autodefinirci? Restiamo solamente sottili linee inconcludenti e incapaci di incrociarsi in uno schema esistenziale confuso e nichilista.