Marco Pantani è stato ucciso due volte: la prima, il 5 Giugno 1999 a Madonna di Campiglio. Il Giro d’Italia in pratica era già nelle sue mani, si avviava ad una passerella finale che lo avrebbe portato al bis del successo del 1998. Quella mattina, invece, fu sospeso dalla corsa per via del valore dell’ematocrito superiore al limite consentito. Marco lo disse subito che qualcosa di insolito doveva esserci perché la sera prima si era controllato e l’ematocrito si attestava attorno ai 48, com’era potuto salire a 52 la mattina dopo? Uscendo dall’hotel Touring quel giorno dichiarò: “Sono ripartito dopo dei grossi incidenti, ma moralmente questa volta credo che abbiamo toccato il fondo”.

E così è stato, Pantani non è più tornato ad essere il pirata.

La seconda è stata il 14 Febbraio 2004, al residence “Le Rose” di Rimini, quando è morto fisicamente. Anche qui molte ombre e dubbi. Si è sempre parlato di suicidio, il caso è stato archiviato anche abbastanza velocemente, ma i familiari e gli amici non hanno mai creduto a questa ipotesi: troppi dettagli che non convincono, dichiarazioni fasulle, indagini frettolose e non dettagliate, come a voler celare una verità scomoda. L’unica cosa certa è che Marco se ne è andato davvero e non tornerà più. Una vita giovane, un ciclista formidabile, un figlio, un amico che è volato in cielo.

Ciò che colpisce della storia di Pantani è che passano gli anni, ma l’affetto nei suoi confronti non si placa, anzi, sembra aumentare di anno in anno.

Sulle strade del Giro d’Italia il nome che compare più volte scritto sull’asfalto o nei cartelloni dei tifosi è il suo, a 15 anni dalla morte e a più di 20 dalle sue imprese. Anche chi non è amante del ciclismo conosce Marco, sa chi era, lo stimava. Se dici il suo nome vedi gli occhi lucidi delle persone, dal bimbo di 10 anni all’anziano di 80, che testimoniano un affetto sincero e mai svanito. Io stessa ne sono la dimostrazione.

Avevo 4 anni quando Marco fece la mitica doppietta Giro più Tour, ne avevo 5 il giorno di Campiglio, eppure io ricordo ogni sua gara, il modo in cui scattava in bici lasciando il vuoto dietro sé.

Ricordo mio padre che si alzava dal divano quando Marco si alzava dal sellino, il modo in cui lo incitava senza mai fermarsi fino all’arrivo, sudando quanto o forse ancor più di lui, le lacrime di gioia mischiate a quelle di dolore del 1999 e del giorno di San Valentino del 2004, come se ad andarsene fosse stato un amico. Mio padre ancora segue il ciclismo, con molto meno entusiasmo, e io con lui. Conosco un sacco di appassionati che continuano ad andare in bici, ma che da quel giorno di Giugno hanno smesso di seguire le gare. In effetti il ciclismo si potrebbe dividere in due ere, A.M. e P.M, prima e dopo Marco, perché dopo di lui niente è stato più come prima.

Si sono succeduti grandi campioni, italiani e non solo, ma nessuno ha avuto la capacità di attirare l’attenzione come lui.

Perché Marco era diverso, era uno di noi, un’anima fragile e sensibile, un ragazzo che non aveva paura di mostrare i suoi difetti, un piccolo grande uomo schiacciato dal peso della vita. Ispirava simpatia a pelle, sembrava incredibile che in un corpo così piccolo potesse nascondersi un campione di quella portata.

Poteva essere aiutato in qualche modo? Poteva essere evitata la sua morte così precoce? Può darsi, ma non importa. Ciò che conta ora è che sia fatta giustizia, che venga fuori la verità sulla sua morte, e che il suo ricordo resterà intatto per tanti anni ancora. Hanno provato ad ucciderlo due volte, ma non sono bastate: Marco è immortale.


Hanno ucciso il Pirata, ma Marco Pantani è immortale

Articolo di Valeria Verdini